
Qualunque sia il teatro lirico nel quale stiamo per entrare i nostri sensi vengono immediatamente sollecitati, per primo l’udito da un concitato brusio di sottofondo, un parlare veloce a mezzo tono, che non disturba, crea l’attesa dell’inizio. Il secondo elemento al quale non ci è concesso di sottrarci è la luce del teatro, rimbalza sui velluti, sui palchi fino a toccare i tendaggi del sipario ed è lì che tutti noi focalizziamo la nostra attenzione.
Le luci si abbassano, il mormorio si affievolisce e nel silenzio assoluto, il direttore d’orchestra alza la bacchetta, l’orchestra suona, il sipario si alza e l’opera racconta una storia di vita.
I Lombardi alla prima Crociata di Giuseppe Verdi, rappresentata per la prima volta alla Scala, l’11Febbraio 1843, ritorna alla Fenice l’8 Aprile 2022, dopo oltre un secolo di silenzio dal suo debutto.
La trama è quanto mai arzigogolata, nel più irruente stile verdiano, racconta di una Faida Familiare: Pagano uccide il padre al posto del fratello Arvino di cui era profondamente geloso, avendo quest’ ultimo sposato la donna che lui amava, Viclinda e dalla quale nasce una figlia, Giselda.
Fin qui tutto normale per le trame verdiane, gli intrecci familiari, l’esasperazione delle emozioni, la ricerca del dramma scenico, sono tutti elementi che il Primo Verdi porta già in scena.
É il sentimento della gelosia a governare l‘animo dei protagonisti, ma questa volta a differenza del Rigoletto o dell’Otello, i colpi di scena disorientano lo spettatore, al punto da perdere il filo della storia se non si conosce l’opera prima della sua visione.
Il primo atto è ambientato a Milano, siamo intorno all’ anno 1100, la scena si apre all’interno della Basilica di S. Ambrogio, dove Pagano viene accolto e perdonato dal lungo esilio e il Priore annuncia la partenza di Arvino per le crociate. Ci si sposta nel palazzo di Folco, dove Giselda impedisce l’uccisione di Pagano, dopo aver scoperto la morte del nonno.
Nel secondo atto ci ritroviamo catapultati nelle stanze private del tiranno Acciano e subito dopo nell’ harem del suo palazzo e ci si domanda: “Ma come ‘è arrivata Giselda la figlia di Arvino ad Antiochia in Gerusalemme ed innamorarsi di Oronte figlio del tiranno?”
Si è talmente presi dalla bellezza di questa musica, dal coro che accompagna lo sviluppo scenico, che i dettagli della trama passano in secondo piano.
L’edizione andata in scena al teatro la Fenice è probabilmente quella che più si avvicina a come Giuseppe Verdi l’avrebbe voluta sentire interpretata nel 2022.
Il maestro Sebastiano Rolli alla guida dell’Orchestra alla Fenice ha saputo dirigere magistralmente sia l’orchestra che il coro, con la giusta dose di energia per sostenere il ritmo dell’azione e tenere alta la tensione nello spettatore.
Ci ha restituito tutta la bellezza di quest’opera che, per i rimaneggiamenti poco attendibili nel corso degli anni forse aveva perso la sua briosa lucentezza. Oggi siamo in grado di riscoprirla, grazie alla partitura David R.B.Kimbell che si è basato sulla copia autografata di Giuseppe Verdi conservata nell’archivio storico Ricordi a Milano.
Michele Pertrusi, basso nel ruolo di Pagano, è praticamente perfetto e cavalca la scena, ma è in buona compagnia. Era da molto tempo che non avevo più avuto l’occasione di assaporare un cast così equilibrato, dove le voci si sostenendosi l’una con l’altra sono riuscite a risaltare vicendevolmente nella recitazione teatrale, le proprie caratteristiche principali.
La Giselda interpretata da Roberta Mantenga è un’eroina romantica ma di carattere e tale forza ben è espressa dagli sbalzi e da una limpidezza di canto che raggiunge l’apice nella preghiera.
Oronte di Antonio Poli, finalmente un fraseggio chiaro e limpido, Mattia Denti ci regala un Pirro autorevole mentre Marianna Mappa riesce a dare personalità a Viclinda e Antonio Corianò un Arvino incisivo, ma sono le giovani voci di Adolfo Corrado, Acciano, breve passaggio ma intenso, Christian Collia priore della città di Milano e Barbara Massaro nella parte di Sofia madre di Oronte, a sorprendere e hanno le potenzialità di emergere nello scenario artistico non solo Italiano.
Riuscito è l’intermezzo della scena del ballo in chiave moderna, creato per accompagnare lo spettatore nella comprensione del dramma verdiano nel rapporto tra Pagano e Arvino, si è cercato una soluzione stilistica al vuoto di continuità che la trama ha.
L’operazione è talmente ben riuscita che ha suscitato applausi a scena aperta, l’esecuzione artistica dei due giovani ballerini vestiti da studenti porta in scena il dramma più antico; quello di Caino e Abele.
Peccato che nessuna recensione li abbia nominati.
Gli applausi del pubblico hanno ridato all’opera quel sapore di popolarità che oggi non ha più, ma non perché manchi la passione o la curiosità di crescere da parte di un pubblico attento, ma perché è difficile trovare oggi delle belle voci e delle voci che abbiano avuto il tempo di lavorare assieme ed amalgamarsi come è accaduto per questa edizione.
La regia, i costumi scenici, la scenografia, sono tentativi d’interpretazione che possono più o meno riuscire, ma non tolgono e non aggiungono niente all’opera in sé stessa, se prima la direzione orchestrale, l’orchestra, le voci dei cantanti ed il coro non sono in grado di eseguirla in modo virtuoso ed emozionare un pubblico popolare.
Valentino Villa, ha cercato di reinterpretare l’opera per catturare l’attenzione dei giovani e l’ha attualizzata Massimo Checchetto, scenografo e Elena Cicorella costumista, si sono adeguati alla linea definita da Valentino Villa per dare uniformità e continuità al messaggio artistico.
Operazione riuscita o non riuscita?
Io non mi porto a casa il ricordo del coro vestito da infermiere, ma la passione con la quale ha cantato sì.
Ci si dimentica che l’opera lirica per rimanere viva deve rinnovarsi nella sua dimensione popolare, anche per il tango accade la stessa cosa, è il messaggio musicale ad emozionare, non l’ambientazione della Milonga.
Vi è un tango, la cui letra forse ci può aiutare a riflettere è stata scritta nel 1934.
CAMBALACHE / Robavecchia
Tango 1934
Musica: Enrique Santos Discépolo
Letra : Enrique Santos Discépolo
Traduzione Pablo Helman dal libro “Canzoni di una vita, canzoni di tante vite”
Che il mondo fu e sarà una porcheria
Già lo so…
(nel cinquecento sei come pure nel duemila!).
Che sempre ci sono stati ladri,
i machiavelli, i truffati, i contenti e gli amareggiati,
valori e falsità…
Ma che il ventesimo secolo sia uno sfoggio
di malvagità insolenti
già non c’è chi lo neghi.
Viviamo mescolati
In una meringa
Tutti immersi nello stesso fango
Tutti manipolati…
Oggi risulta che è lo stesso
Essere onesto o traditore,
ignorante, saggio o ladro,
generoso o truffatore.
Tutto è uguale!
Niente è migliore!
È lo stesso essere un somaro
Che un grande professore!
Non ci sono bocciati
né graduatoria
gli immorali
ci hanno eguagliato.
Se uno vive nell’ impostura
e un altro ruba nella sua ambizione,
fa lo stesso che sia prete,
materassaio, re di bastoni,
faccia tosta o clandestino!..