I LOMBARDI ALLA PRIMA CROCIATA: l’ Opera come il Tango per essere vivi devono essere popolari

Giuseppe Verdi – I lombardi alla prima crociata – Enrique Santos Discépolo

Qualunque sia il teatro lirico nel quale stiamo per entrare i nostri sensi vengono immediatamente sollecitati, per primo l’udito da un concitato brusio di sottofondo, un parlare veloce a mezzo tono, che non disturba, crea l’attesa dell’inizio. Il secondo elemento al quale non ci è concesso di sottrarci è la luce del teatro, rimbalza sui velluti, sui palchi fino a toccare i tendaggi del sipario ed è lì che tutti noi focalizziamo la nostra attenzione.

Le luci si abbassano, il mormorio si affievolisce e nel silenzio assoluto, il direttore d’orchestra alza la bacchetta, l’orchestra suona, il sipario si alza e l’opera racconta una storia di vita.

I Lombardi alla prima Crociata di Giuseppe Verdi, rappresentata per la prima volta alla Scala, l’11Febbraio 1843, ritorna alla Fenice l’8 Aprile 2022, dopo oltre un secolo di silenzio dal suo debutto.

La trama è quanto mai arzigogolata, nel più irruente stile verdiano, racconta di una Faida Familiare: Pagano uccide il padre al posto del fratello Arvino di cui era profondamente geloso, avendo quest’ ultimo sposato la donna che lui amava, Viclinda e dalla quale  nasce una figlia, Giselda.

Fin qui tutto normale per le trame verdiane, gli intrecci familiari, l’esasperazione delle emozioni, la ricerca del dramma scenico, sono tutti elementi che il Primo Verdi porta già in scena.

É il sentimento della gelosia a governare l‘animo dei protagonisti, ma questa volta a differenza del Rigoletto o dell’Otello, i colpi di scena disorientano lo spettatore, al punto da perdere il filo della storia se non si conosce l’opera prima della sua visione.

Il primo atto è ambientato a Milano, siamo intorno all’ anno 1100, la scena si apre all’interno della Basilica di S. Ambrogio, dove Pagano viene accolto e perdonato dal lungo esilio e il Priore annuncia la partenza di Arvino per le crociate.  Ci si sposta nel palazzo di Folco, dove Giselda impedisce l’uccisione di Pagano, dopo aver scoperto la morte del nonno.

Nel secondo atto ci ritroviamo catapultati nelle stanze private del tiranno Acciano e subito dopo nell’ harem del suo palazzo e ci si domanda: “Ma come ‘è arrivata Giselda la figlia di Arvino ad Antiochia in Gerusalemme ed innamorarsi di Oronte figlio del tiranno?”

Si è talmente presi dalla bellezza di questa musica, dal coro che accompagna lo sviluppo scenico, che i dettagli della trama passano in secondo piano.

L’edizione andata in scena al teatro la Fenice è probabilmente quella che più si avvicina a come Giuseppe Verdi l’avrebbe voluta sentire interpretata nel 2022.

Il maestro Sebastiano Rolli alla guida dell’Orchestra alla Fenice ha saputo dirigere magistralmente sia l’orchestra che il coro, con la giusta dose di energia per sostenere il ritmo dell’azione e tenere alta la tensione nello spettatore.

Ci ha restituito tutta la bellezza di quest’opera che, per i rimaneggiamenti poco attendibili nel corso degli anni forse aveva perso la sua briosa lucentezza. Oggi siamo in grado di riscoprirla, grazie alla partitura   David R.B.Kimbell che  si è basato sulla copia  autografata di Giuseppe Verdi conservata nell’archivio storico Ricordi a Milano.

Michele Pertrusi, basso nel ruolo di Pagano, è praticamente perfetto e cavalca la scena, ma è in buona compagnia. Era da molto tempo che non avevo più avuto l’occasione di assaporare un cast così equilibrato, dove le voci si sostenendosi l’una con l’altra sono riuscite a risaltare vicendevolmente nella recitazione teatrale, le proprie caratteristiche principali.

La Giselda interpretata da  Roberta Mantenga è un’eroina romantica ma di carattere e tale forza ben è espressa dagli sbalzi e da una limpidezza di canto che raggiunge l’apice nella preghiera.

Oronte di Antonio Poli, finalmente un fraseggio chiaro e limpido, Mattia Denti ci regala un Pirro autorevole mentre Marianna Mappa riesce a dare personalità a Viclinda e Antonio Corianò un Arvino incisivo, ma sono le giovani voci di Adolfo Corrado, Acciano, breve passaggio ma intenso, Christian Collia priore della città di Milano e Barbara Massaro nella parte di Sofia madre di Oronte, a sorprendere e hanno le potenzialità di emergere nello scenario artistico non solo Italiano.

Riuscito è l’intermezzo della scena del ballo in chiave moderna, creato per accompagnare lo spettatore nella comprensione del dramma verdiano nel rapporto tra Pagano e Arvino, si è cercato una soluzione stilistica al vuoto di continuità che la trama ha.

L’operazione è talmente ben riuscita che ha suscitato applausi a scena aperta, l’esecuzione artistica dei due giovani ballerini vestiti da studenti porta in scena il dramma più antico; quello di Caino e Abele.

Peccato che nessuna recensione li abbia nominati.

Gli applausi del pubblico hanno ridato all’opera quel sapore di popolarità che oggi non ha più, ma non perché manchi la passione o la curiosità di crescere da parte di un pubblico attento, ma perché è difficile trovare oggi delle belle voci e delle voci che abbiano avuto il tempo di lavorare assieme ed amalgamarsi come è accaduto per questa edizione.

La regia, i costumi scenici, la scenografia, sono tentativi d’interpretazione che possono più o meno riuscire, ma non tolgono e non aggiungono niente all’opera in sé stessa, se prima la direzione orchestrale, l’orchestra, le voci dei cantanti ed il coro non sono in grado di eseguirla in modo virtuoso ed emozionare un pubblico popolare.

Valentino Villa, ha cercato di reinterpretare l’opera per catturare l’attenzione dei giovani e l’ha attualizzata Massimo Checchetto, scenografo e Elena Cicorella costumista, si sono adeguati alla linea definita da Valentino Villa per dare uniformità e continuità al messaggio artistico.

Operazione riuscita o non riuscita? 

Io non mi porto a casa il ricordo del coro vestito da infermiere, ma la passione con la quale ha cantato sì.

Ci si dimentica che l’opera lirica per rimanere viva deve rinnovarsi nella sua dimensione popolare, anche per il tango accade la stessa cosa, è il messaggio musicale ad emozionare, non l’ambientazione della Milonga.

Vi è un tango, la cui letra forse ci può aiutare a riflettere è stata scritta nel 1934.

CAMBALACHE /  Robavecchia

Tango 1934

 Musica: Enrique Santos Discépolo

Letra : Enrique Santos Discépolo

Traduzione Pablo Helman dal libro “Canzoni di una vita, canzoni di tante vite”

Che il mondo fu e sarà una porcheria

Già lo so…

(nel cinquecento sei come pure nel duemila!).

Che sempre ci sono stati ladri,

i machiavelli, i truffati, i contenti e gli amareggiati,

valori e falsità…

Ma che il ventesimo secolo sia uno sfoggio

di malvagità insolenti

già non c’è chi lo neghi.

Viviamo mescolati

In una meringa

Tutti immersi nello stesso fango

Tutti manipolati…

Oggi risulta che è lo stesso

Essere onesto o traditore,

ignorante, saggio o ladro,

generoso o truffatore.

Tutto è uguale!

Niente è migliore!

È lo stesso essere un somaro

Che un grande professore!

Non ci sono bocciati

 né graduatoria

gli immorali

ci hanno eguagliato.

Se uno vive nell’ impostura

e un altro ruba nella sua ambizione,

fa lo stesso che sia prete,

materassaio, re di bastoni,

faccia tosta o clandestino!..

Giuseppe Verdi – “O Signore dal tetto natio” – I Lombardi alla prima crociata

Enrique Santos Discépolo – Cambalache

UN TANGO PER MACBETH: il fascino di una donna al servizio del potere

Macbeth è l’opera che più di altre Verdi ha profondamente amato.

Nei margini dello spartito originale, vi sono appunti e riflessioni intime, come spesso accade a tutti noi quando leggiamo qualcosa di molto caro, viene istintivo aggiungere qualcosa perché si teme di perderla.

 L’attenzione per i dettagli come la sottolineatura dell’interpretazione recitativa e drammatica delle voci, che diverrà da qui in poi l’elemento di distinzione di tutti i lavori di Giuseppe Verdi, fa sì che il Macbeth, sia considerata l’opera di passaggio della sua formazione artistica, da quella giovanile a quella adulta.

Il libretto scritto quasi completamente dal Maestro, è la riduzione dell’opera di William Shakespeare, per poterla trasformare in quattro atti per il teatro lirico.

Verdi, grande ammiratore di Shakespeare, ha voluto riportare fedelmente la trama, motivo per il quale non concesse a nessuno questa operazione di taglio e scrisse il testo in prosa italiana, solo successivamente venne poi affidato alla penna di Francesco Maria Piave che ne curò la verseggiatura per il canto.

Il libretto subì ulteriori variazioni, una volta terminato, da parte di Maffei, che toccò due delle parti più importanti di tutta l’opera, il coro delle streghe e la scena del sonnambulismo di lady Macbeth.

Prima di addentrarci nel vivo della storia, procediamo con ordine.

I personaggi sono pochi: Ducano il re di Scozia, una figura che è quasi un’ombra, uno spettro ancora prima di essere ucciso, non canta e non parla.

Macbeth, baritono, protagonista di questa storia è colui che ucciderà Ducano e tradirà Banco, basso, suo amico, entrambi valorosi generali e compagni d’armi di Ducano.

Lady Macbeth, soprano, rappresenta la luce e l’oscurità per l’anima di Macbeth.

Verdi non ha bisogno di dare spessore psicologico ai personaggi, diremo noi oggi, attinge a piene mani dal lavoro originale di Shakespeare.

 Il contributo del Maestro, consapevole dei forti tagli poetici che l’opera aveva subito, è tutto nel ridare poesia alla musica, quella ricerca melodica e drammatica che non lo abbandonerà più; la sua attenzione è poi rivolta nel trovare la voce giusta che possa esprimere l’anima di Lady Macbeth.

Questa, come afferma lo stesso Verdi, “non deve essere bella, ma una voce aspra, soffocata e cupa che avesse del diabolico“, questo è uno dei motivi per cui non si assiste spesso alle rappresentazioni di Macbeth al Teatro, occorre avere un soprano con queste colorature.

Macduff, tenore, nobile scozzese, Malcom figlio del re Ducano tenore e Flaenzo figlio di Banco, sono le altre figure presenti nel dramma, ruoli minori ai quali Verdi dedica molta cura.

Da subito Verdi vuole che sia ben chiaro l’importanza e la rilevanza che ha il coro.

Le streghe specifica chiaramente che devono essere divise in tre drappelli e sarebbe ottima cosa che fossero 6,6,6 in tutto 18.

Non certo quello che abbiamo assistito alla prima della Scala nell’ edizione del 2021, la movimentazione delle streghe coreograficamente non ha aggiunto niente, se non che, ha creato confusione nello spettatore, il Maestro avrebbe voluto che l’attenzione rimanesse sulla musica e il canto.

La trama sviscera le forme oscure in cui prendono forma: l’ambizione e il desiderio di potere, politica, donne e soldi, temi attuali a Shakespeare come a Verdi e anche oggi sono monito per la classe dirigente e colta del Paese.

Il pubblico che oggi ha assistito alla Prima, non era poi così tanto diverso da quello di Verdi e di Shakespeare quando lo rappresentò alla corte di Elisabetta I regina d’Inghilterra.

Ieri come oggi è un messaggio di monito di attenzione per la classe dirigente, dove l’aberrazione sfocia in un assassinio, premeditato e non passionale.

La profezia delle streghe, scatena l’ambizione in Macbeth e nella sua Lady, la complicità di coppia diventa terreno fertile per creare la congiura e manipolare la scalata sociale per arrivare al trono, al posto di potere, di comando decisionale.

Il teatro prende vita e quello che vediamo raccontato come una storia antica sul palcoscenico, non è poi tanto diversa dalle dinamiche che si svolgono all’interno di un palazzo politico, di una casa farmaceutica, di un’università o di un teatro stesso.

Non si arriva forse ad un omicidio morale, quando si utilizzano soldi pubblici per progetti non utili al bene comune? Quando si vendono vaccini ad un costo che genera un profitto eccessivo? Quando si nominano Rettori o Direttori artistici per garantire una cordata di alleanze a discapito di persone più preparate? O quando nei teatri di prosa come nella lirica si propongono contratti ad attori o cantanti per ruoli non adatti che devono interpretare?

Allora come oggi, sono gli artisti a sollevare quel velo di ipocrisia con il quale ci copriamo occhi. Purtroppo figure di riferimento, come fu Giovanni Zenatello per la lirica italiana, sono rarissime, al punto tale che non hanno la voce per imporsi nella confusione assordante del Foyer .

 Shakespeare come Verdi, denunciano ruoli e comportamenti, che nella storia si ripetono e si perdono nella fragilità dell’essere umano.

Eppure anche questa edizione che voleva dare una lettura nuova e moderna, in realtà si è ritrovata intrappolata ancora prima di nascere nelle dinamiche del Macbeth stesso, non è riuscita ad evidenziare un archetipo storico.

“Condannare tutte le donne, per aiutare alcuni uomini fuorviati a superare il loro comportamento insensato, equivale a denunciare il fuoco, che è un elemento vitale e benefico, solo perché alcune persone ne vengono bruciate, o maledire l’acqua, solo perché alcune persone vi annegano”.

Sono parole della scrittrice Christine de Pisan, nata a Venezia nel 1364, storica bolognese che visse in Francia.

Già allora lei evidenziava come lo stigma di donna libera e determinata contenesse in sé un’ accezione come diabolica, ambiziosa e spregiudicata.

E’  Lady Macbeth la vera responsabile ed istigatrice dell’ambizione del marito?

La risposta è nella scena del sonnambulismo, Verdi si pone come se l’era posto Shakespeare, la stessa riflessione di Christine de Pisan.

Shakespeare ne fa una delle pagine poetiche più intense del Macbeth e Verdi non gli è da meno, scrivendo una delle più belle partiture musicali drammatiche, raccoglie nel tormento del canto di lady Macbeth, l’impossibilità di chiedere perdono: pietà, rispetto e amore era ciò che cercava.

La donna in questo ruolo identificato della fantasia collettiva, segnata marcata come diabolica, troviamo le origini di convinzioni collettive sul mondo femminile che ancora oggi la nostra società è portatrice.     Verdi attraverso la musica e Shakespeare attraverso la prosa le donano, una chance di espiazione.

La mia conclusione personale è che Verdi era più moderno di noi tutti messi assieme e talmente lungimirante da scrivere che la sua opera non venisse rimaneggiata.

Vanità delle vanità, chi  scaglia la prima pietra? Io di certo non lo farò.

Mi limito a suggerire agli appassionati di lirica una riflessione proposta da un canto tanguero, come ai tangueri che avranno letto questo breve articolo e si presteranno all’ascolto del Macbeth, sicuramente comprenderanno con più facilità la poeticità del linguaggio di questo tango.

La letra, è il termine utilizzato per il testo cantato nel tango, parla di un amore “senza parole questa musica ti ferirà, ovunque il tuo tradimento la ascolterà”.

Pentimento è il legame che ora unisce la coppia Macbeth, un tradimento reciproco è alla base del loro rapporto, h anno sacrificato il loro amore per l’ambizione del potere e del prestigio e genera dolore, così come l’amore perduto tra gli amanti è cantato in questo tango.

Sin palabras/Senza parole traduzione di Carla de Benedicts

Musica di Mariano Mores, Letra di Enrique Santos Discepolo

È nato da te

Cercando un canto che ci unisse,

e oggi so che è crudele, brutale, forse,

la punizione che ti do.

Senza parole questa musica ti ferirà,

ovunque il tuo tradimento la ascolterà…

nella notte più folle, nel giorno più triste,

sia che tu rida o che tu pianga la tua illusione.

Perdonami se è Dio

che ha voluto punirti infine

se ci sono lacrime che così possono continuare,

queste note che sono nate per amore tuo,

alla fine sono una tortura che rinnova le ferite di una storia…

sono pene, sono ricordi…

fantoccio ferito, il mio dolore, si alzerà ogni volta

che tu ascolterai questo canto!

Vostra Rosaspina Briosa®️, augura a tutti buon ascolto!

SIN PALABRAS, Robert Goyeneche
MACBETH, Giuseppe Verdi – 1 atto, Le Streghe
MACBETH, Giuseppe Verdi – PIETÁ RISPETTO AMORE, Ludovic Tèzier
MACBETH, Giuseppe Verdi – NEL DI DESLLAVITTORIA …VIENI T’ AFFRETTA …OR TUTTI SORGETE, Saioa Hernandez
MACBETH, Giuseppe Verdi – UNA MACCHIA É QUI TUTTORA, Anna Pirozzi

FONTE:

Charles Osborne; Tutte le opere di Verdi, (1979)

Carla De Benedictis; Parole Parole Parole di tango, (2018)

LIRICA E TANGO: “Il perdono come fiore della vita”

Vicenzo Bellini – Norma e Enrique Santos Discépolo – Tormenta

Il perdono è uno dei sentimenti più complessi con i quali nell’arco della nostra vita, prima o poi, tutti noi ci dobbiamo confrontare.

“Davanti a questa emozione il tempo è una variabile determinante” afferma Giovanni Jervis, noto psichiatra e sottolineando come questi influenzi il nostro modo di giudicare e di sentire.

Il perdono non è un obbligo e non è pertanto possibile istituzionalizzarlo per quanto ci si provi, rimane prima di tutto un atto libero e personale verso se stessi e verso l’altro.

Ho letto in questi giorni cercando di approfondire la complessità dell’argomento, che chi ha una stima tale da non ammettere che qualcuno lo possa offendere, non avverte il bisogno di perdonare, così come chi avverte l’offesa come un affronto alla propria dignità, non concederà il perdono.

I due casi estremi sono il riflesso e la sintesi della mancanza di dialogo, tanto si è narcisisti o fragili, quanto si innalzano muri in protezione.

La lirica e il tango sono in grado di accompagnarci nei sentieri di questa riflessione, lasciando ad ognuno di noi la libertà di cogliere sfumature diverse e forse abbassare quelle rigidità che ci portiamo dentro; riuscendo così a perdonarci e a perdonare.

Ho trovato particolarmente attuale l’opera di Bellini Norma, per comprendere la complessità della sua trama e le dinamiche degli attori principali, la chiave di lettura è il perdono.

Vicenzo Bellini, artista unico nella panoramica del Bel Canto Italiano, nacque a Catania il 3 Novembre 1801, morì a Parigi all’età di 34 anni nel 1835. Morì quindi giovanissimo ed oltretutto poco dopo il debutto della sua più acclamata opera, I Puritani, proprio come accadè quarant’anni più tardi a Bizet, a pochi mesi dal debutto dell’opera la Carmen, nel 1875.

Parallelismi e fili rossi invisibili legavano artisti unici in quegli anni a Parigi, l’amore e la creatività si intrecciavano come nei romanzi d’amore di quel periodo.

 Rossini, Balzac e Bellini, tutti dovevano aver avuto un tratto comune nella loro intima personalità per essere riusciti a cogliere le attenzioni di mademoiselle Pélissier. Olympe Pélissier era una donna estremamente intelligente e raffinata, ricercatrice, nel gioco della vita, del sentimento di passione, forse questo il filo conduttore che legò i tre uomini e di cui è giunta a noi testimonianza storica.

Tornando a Norma, fu composta in Italia, in tre mesi nel 1830 durante il soggiorno di Bellini a Villa Passalacqua a Moltrasio sul lago di Como. La bellezza di quel luogo non può che predisporre l’animo alla creatività, la giovinezza e la genialità di Bellini fecero il resto e gli permisero di dare vita ad una musica le cui arie ancora oggi sono tra le più difficili da interpretare, richiedono una padronanza tecnica della voce sia del legato che nel fraseggio e non ultimo degli acuti richiesti, non facile da raggiungere senza aver ricevuto in dono, da madre natura, una voce bellissima, bella non è sufficiente.

Per queste ragioni Norma è considerata da tutti i soprani una prova di  “coraggio”, solo la Callas e poche altre riuscirono a rendere a pieno l’intensità drammatica legata a  questa figura.

La trama di Norma, opera in due atti, tratta dal libretto di Felice Romani, scrittore poeta e critico musicale , narra di una vicenda ai tempi dei Galli e del conflitto con i Romani.

La scelta del periodo storico per l’ambientazione è dettata dai canoni della moda di quel tempo, non rappresenta un valore aggiunto per la trama ed è questo a far sì che il messaggio di Norma possa essere attualizzato ancora oggi.

 La musica è al servizio dei personaggi per indirizzarli verso un viaggio nella complessità dell’animo umano, dove per la prima volta nella storia della lirica le personalità degli attori non sono pennellate completamente buone o completamente cattive.

Nel dramma dei rapporti familiari ed istituzionali che le figure di Pollione, Norma, Aldagisa e Oroveso hanno tra loro è sempre il perdono a rimanere al centro del confronto, come un fuoco, una luce con la quale ognuno si deve confrontare.

Norma perdona Pollione per il tradimento alla promessa di fedeltà, nel momento in cui lo percepisce non più come una lesione alla sua dignità, perché l’amore parte sempre da una scelta personale e nessuno può in ciò ledere la stima di sé stessi, ma può avvenire, solo nella dimensione in cui lo permettiamo all’altro.   Norma nel riconoscere questo, perdona se stessa dal senso di colpa per non aver rispettato la promessa dei voti sacri di castità ed espia attraverso il suo sacrificio, il suicidio, il giudizio di una colpa sociale.

Questo passaggio è estremamente delicato, Bellini offrì l’opportunità ai suoi contemporanei, di riflettere sulla variabile tempo e l’insieme dei valori sociali che condizionano il giudizio di colpa sociale e che spingono il genere umano verso comportamenti contrari alla sua natura intima.

 Ciò che una volta veniva inteso deplorevole al punto da richiedere il sacrifico umano e l’ espiazione della colpa con il suicidio, un domani potrebbe forse non essere più necessario.

Pollione inizialmente non si riconosce nessuna colpa, perché ha una stima tale di sé da ritenersi migliore e da non riconoscersi nella posizione di aver ferito l’altra parte.

 Raggiungerà la consapevolezza, del proprio pentimento nel momento in cui riconosce la superiorità morale di Norma.

 Norma, nell’atto di rinunciare alla vendetta, fa sì che Pollione avverta la responsabilità delle proprie azioni e la rabbia iniziale di Norma, non più come un affronto alla sua dignità, al contrario, è il perdono di lei che lo spinge ad un cambiamento profondo.

Aldagisa, figura femminile antagonista di Norma nell’amore a Pollione è l’ inconsapevole miccia che dà via a questo conflitto di emozioni.

Aldagisa, perdona se stessa per aver amato Pollione ed aver infranto a sua volta gli stessi voti di Norma.

Il riconoscersi tra donne le permette di comprendere la debolezza dell’altro.

Aldagisa rimane sola con il suo amore e la consapevolezza che forse il sentimento di Pollione per lei fosse nato dalla spinta della giovinezza, ma non dal quel sentimento profondo che lega le anime in un rapporto di amore e odio.

Oroveso, capo dei Druidi e padre di Norma, rappresenta il perdono istituzionalizzato, quello sociale, nell’accettare il sacrifico della sua unica figlia   e nello stesso tempo rappresenta il perdono, quello più privato ed intimo tra padre e figlia nel mantenere custodite le sue le ultime parole e il suo segreto.

Oroveso mette in salvo la vita dei figli nati da questa unione d’amor tra Pollione e Norma, ma condannati dal senso di colpa sociale.

Vi propongo l’ascolto di un breve pezzo da abbinare con la lettura del testo sovrascritto con un video che permette anche a chi non è solito alla comprensione della lirica di poterlo seguire.

 In mia man al fin tu sei: la scena è una delle più intense, si svolge alla fine del secondo atto.

Pollione è stato scoperto nel suo tentativo di rapire Aldagisa dal tempio, ora è solo con Norma, la quale, con la scusa di volerlo interrogare, ha allontanato i guerrieri e suo padre il druido Oroveso.

Il dialogo tra Norma e Pollione si fa accesso ed intimo, in questa fase passione, amore, odio perdono, tutte le riflessioni fin qui fatte, sono presenti.

Vicenzo Bellini, Norma – In mia man alfin tu sei – Maria Callas, Norma – Mario Filippeschi, Pollione

Se l’opera lirica è riuscita a regalarci emozioni intense e spazi di riflessione profondi, altrettanto è in grado di farlo il tango con una lirica poetica ma completamente diversa, perché arricchita di quella leggerezza che pur non esclude la profondità.

Se qualcuno volesse divertirsi a scrivere la parola tango e perdono su Google, rimarebbe attonito dalla valanga di pagine che gli si aprono.

Ho scelto un tango dove la ricerca della musicalità non fosse da meno dell’intensità delle parole della letra .

Non è possibile mettere a confronto due generi musicali talmente diversi e complessi nelle loro radici e memorie storiche, tanto da rendere quasi impossibile un linguaggio trasversale, tra lirica e tango, se non nella dimensione del rispettoso ascolto dell’ elemento musicale.

Tormenta è un tango scritto e musicato da  Enrique Santos Discépolo, definito  il poeta del tango, un filosofo della vita, figura unica nel panorama della cultura argentina .

Enrique Santos Discépolo nacque in una famiglia di artisti il 27 marzo 1901.

Perse i genitori da piccolo e suo fratello maggiore Armando lo avviò sulla strada dell’arte avendo intuito le sue eclettiche potenzialità: fu compositore, poeta, scrittore, drammaturgo, attore e filosofo.

I suoi testi parlano della vita delle esperienze umane ed è sempre una rilettura della realtà in poesia. La sua forte sensibilità lo portò ad essere sempre un uomo estremamente attento alle tematiche sociali, denunciando la povertà e le disuguaglianze del suo paese. Ne è una testimonianza il video che condivido con voi dove parla con Gardel poco prima di eseguire uno dei suoi brani, Yira Yira.

Nel 1918 a soli 17 anni scrisse le sue prime opere teatrali : El señor cura, El hombre solo, Día Feriado, da lì in poi la sua carriera artistica si fermò solo con la sua morte.

Ebbe un infanzia sofferta, dura, privato del calore di entrambi i genitori, durante la quale subì, umiliazioni da parte di familiari stretti che non erano in grado di accogliere una sensibilità come la sua e riversò nella musica e nelle parole quel sentimento angoscioso che i suoi testi di tango esprimono.

A Montevideo nel 1926 visse il suo primo fallimento come compositore, scrisse un testo marcatamente di denuncia sociale “Qué vachaché”, non fu capito, ma quel tango segnò la sua firma ed unicità, un vero poeta.  Rinunciò più volte a lavori che lo avrebbero arricchito per non scendere a compromessi con il suo sentire ed il rispetto verso se stesso e la sua arte.

La sua composizione come paroliere conta non più di una trentina di testi, ma la qualità delle opere composte rivaleggia con i più grandi poeti contemporanei.

Quando compose il testo del tango che ho proposto nel 1939, Tormenta (Tempesta) , implorando Dio per un perdono verso l’umanità che non comprendeva in un impeto di disperazione scrisse:

“Cosa ho imparato dalla tua mano non va bene per vivere?

Sento che la mia fede sta tremando che le persone cattive vivono, Dio, meglio di me. “

Parole che ancora oggi ci fanno tremare per l’attualità del loro significato.

Il perdono dov’è in questa lirica ?

Il perdono è tutto nell’abbraccio del tango, Tormenta nella sua musica intensa, vibrante con il suono del piano e dei violini, ci accompagna mentre balliamo nella ricerca della connessione e ci trasmette, quel calore necessario per  affrontare la tempesta della vita.

Amo credere che  Enrique Santos Discépolo, ci regali un filo di speranza,  certo che il fiore della vita è lì ad attenderlo, oltre la notte buia del dolore, lo stesso fiore che Norma e Apollonio nel perdonarsi vicendevolmente  hanno trovato.

 Vi propongo l’arrangiamento dell’ orchestra di Di Sarli con la voce intensa e piena dal timbro  tenorile di Mario Pomar  e vi aspetto alla prossima video intervista, ritratti, con il soprano Lucia Conte, con lei proseguiremmo la nostra riflessione sul perdono.

Buon ascolto, come sempre vostra Rosaspina Briosa ©️

Testo della letra Tormenta:

¡Aullando entre relámpagos,  perdido en la tormenta de mi noche interminable, ¡Dios! busco tu nombre…
No quiero que tu rayo me enceguezca entre el horror, porque preciso luz para seguir…
¿Lo que aprendí de tu mano no sirve para vivir?
Yo siento que mi fe se tambalea, que la gente mala, vive ¡Dios! mejor que yo…

Si la vida es el infierno y el honrao vive entre lágrimas, ¿cuál es el bien…
del que lucha en nombre tuyo, limpio, puro?… ¿para qué?…

Si hoy la infamia da el sendero y el amor mata en tu nombre, ¡Dios!, lo que has besao…
El seguirte es dar ventaja y el amarte sucumbir al mal.

No quiero abandonarte, yo, demuestra una vez sola que el traidor no vive impune, ¡Dios! para besarte…

Enséñame una flor que haya nacido el esfuerzo de seguirte, ¡Dios!
Para no odiar al mundo que me desprecia, porque no aprendo a robar…
Y entonces de rodillas, hecho sangre en los guijarros moriré con vos, ¡feliz, Señor!

Traduzione

Urlando in mezzo ai lampi, perso nella tempesta della mia notte interminabile, Dio, cerco il tuo nome.

Non voglio che il tuo raggio mi accechi nell’orrore, perché ho bisogno di luce per continuare….

Quello che ho imparato da te non serve per vivere? Sento che la mia fede traballa,
che la gente malvagia vive, Dio, meglio di me.
Se la vita è l’inferno e l’onesto vive in lacrime, qual è il bene… di chi lotta nel tuo nome,
pulito, puro? … Per che cosa?

Se oggi l’infamia paga e l’amore uccide nel tuo nome, Dio, quello che hai baciato…
ed il seguirti è dar vantaggio e l’amarti soccombere al male.

Non voglio abbandonarti, io, dimostra una sola volta che il traditore non vive impunito, Dio, per baciarti… indicami un fiore che sia nato
dallo sforzo di seguirti, Dio, per non odiare il mondo che mi disprezza, perché non imparo a rubare…

E allora fatte sanguinare le ginocchia sui sassi, morirò con te, felice, Signore!

Enirique Santos Discépolo , Tormenta – Carlos di Sarli, Mario Polar
Carlos Gardel e Enrique Santos Discépolo.

FONTI:

Paul Recoeur; Ricordare, dimenticare, perdonare. L’ enigma del passato (2004)

Giovanni Jervis; Il concetto di colpa, (1996) – da filosofia.rai.it, 4 Aprile 1996

Paolo Cecchi; Temi letterari e individuazione melodrammatica in Norma di Vicenzo Bellini, (1997)

Mónica Fernández ; Enrique Santos Discépolo: una mezcla milafrosa de poesìa y filosofìa.

Enrique Santos Discépolo: A miraculous blend of poetry and philosophy, (2013)