10 luglio 2022, il concerto al Vittoriale di Vecchioni rimarrà una data storica per coloro che hanno potuto assistervi, uno spettacolo magistralmente gestito sotto lo sguardo della Luna, pure lei ieri sera ha pianto.
Vecchioni, un poeta, uno degli ultimi cantautori del ventesimo secolo, ha presentato ogni canzone partendo da una riflessione personale, arricchendola di aneddoti e citazioni che hanno strappato più di una risata.
Samarcanda questa volta ha aperto il concerto, un omaggio alle nipotine presenti in sala, che si erano lamentate con il nonno perché solito inserire questo brano in chiusura dei suoi spettacoli, e loro troppo stanche, addormentandosi lo perdevano.
Vecchioni ci ha preso per mano, uno ad uno e nelle due ore e mezza che sono seguite, ci ha fatto vedere una notte illuminata dalla parola amore.
Un amore grande per la vita e per l’uomo, rammentandoci che è la forza del nostro sorriso a determinare gli anni della nostra vita.
Le canzoni più belle si susseguono e sono i versi a rimanere leggiadri nella loro profondità:
“ogni destino nasce dentro un addio, oppure il mio mestiere è la mia ragazza e tutta la bellezza mi scappa via e mi lascia una malattia, tutta la bellezza se ne va in un campo, la bellezza che è la tua e la mia muore dentro in un canto.”
Gli applausi si susseguono e il pathos raggiunge il suo massimo alle prime note di caro amico Vincent, le parole, i colori è la voce del cuore che canta e senti sulla pelle gli ultimi raggi del sole che baciano i girasoli.
La band, lo segue nelle sue variazioni Massimo Germini alla chitarra, Antonio Petruzzelli al basso, RobertoGualdi alla batteria e Max Elli alla tastiera del pianoforte.
Le canzoni di Vecchioni, come le arie dei grandi compositori, siano essi lirici o di tango, lasciano nei nostri cuori una forza speciale che ci rende temprati alle sferzate della vita, perché la luce dei grandi artisti è contagiosa, perché appunto gli anni di vita si misurano … in sorrisi
Marco si chiese perché proprio quella mattina gli erano tornate in mente le parole del Maestro Francesco. Non le aveva comprese allora: “Amara è la vita in fuga.” La sua non era stata una vita amara. Guardiamo la realtà, aveva un lavoro stressante, sì, ma gli piaceva. Possedeva una bella casa e una vita sociale soddisfacente. Aveva interessi suoi ed una compagna con la quale sarebbe invecchiato, alla fine si sarebbero presi cura l’uno dell’ altro. L’ insoddisfazione macinava lentamente all’ interno del suo stomaco come quei vecchi macinini del caffè, bastava poco a lasciare andare la tensione accumulata. La vista del giorno che sorgeva, il suono del mattino, le sue passeggiate solitarie in montagna, le fotografie a scorci paesaggistici, il respiro ritmato del suo cuore nel silenzio della natura, erano strategie create allo scopo di riequilibrare la sua ansia.
Due bei seni e lo sguardo intenso di occhi sinceri, anime solitarie, intimidite, strapazzate dalla fatica del vivere, completavano il cocktail di antidepressivi naturali creati ad hoc per lui.
In fondo, lui e Francesca non si facevano del male, reciprocamente, e nelle relazioni che instaurava, sentiva di donarsi quella libertà che per qualche convinzione sociale era definita tradimento. Oggi però, si percepiva come una contraddizione vivente o un’amarezza sottile, forse nata dalla consapevolezza di non aver cercato con coraggio la reciprocità con Francesca. Il tango, dopo anni e anni, lo stava mettendo davanti ai suoi limiti, lui vi si era avvicinato solo per divertimento, terreno di caccia, e senza saperlo, alla fine si era lasciato catturare dal suo fascino e dalla lenta maturazione. Cambiare se stesso ? Troppo faticoso, forse era anche pronto a farlo, se avesse avuto accanto una donna d’amare… Con questa convinzione che cullava il suo alter ego, ogni futile considerazione venne lasciata lambire nell’ inconscio, dimenticandosi, di ascoltare quella piccola parte di lui che coraggiosamente gli aveva riproposto un ricordo lontano.
Francesca, una volta salita in macchina, si era completamente allontana dal pensiero di Marco, la guida l’aiutava a rimanere focalizzata sulla giornata che l’attendeva in ospedale. Il telefono di Francesca suonò. Guardò il display, era Elena. Mentalmente non aveva tempo per Elena, eppure, come si fa tra amiche, a turno e, senza dirsi niente, in quel mutuo soccorso di abbracci e di ascolto, Francesca decise di rispondere. «Hola! Buongiorno. Come va?» «Ciao bene, sto facendo colazione. Hai sentito la novità?» le chiese Elena.
Francesca rise, le novità di Elena quasi sempre riguardavano pettegolezzi relativi alla vita privata di qualcun altro, non lo faceva con malizia, ma sembrava divenuto un modo tutto suo per rimandare le decisioni che doveva prendere sulla sua vita. La risata di Elena era sempre stata contagiosa, al punto da essere la sua migliore arma di seduzione. Purtroppo, neppure se ne rendeva conto, troppo ingabbiata nel suo ruolo professionale, faceva fatica a lasciarsi andare, vi riusciva solo quando inserita nella comunità della sua scuola di tango o in milonga, nell’atto di togliersi le scarpe ed infilare i tacchi, si trasformava in qualcuno che era lei ma nello stesso tempo no.
Francesca ed Elena si erano piaciute subito.
I loro sguardi si erano incrociati, perché l’una osservava i piedi dell’altra. Sia Elena che Francesca, utilizzavano il rituale dell’osservazione del piede come misura di valutazione dell’altro. Entrambe si vergognavano di questo metro di giudizio scelto, ritenendolo non solo superficiale, ma talvolta anche fuorviante, ciò nonostante rimaneva la convinzione che le scarpe e i piedi nudi, da sempre fossero fonte di importanti informazioni sulla persona presa in esame. L’osservazione, attenta e puntigliosa, condizionava la scelta di un’amicizia divenendo più o meno intima.
Scopertesi a guardarsi rispettivamente, Francesca aveva cercato di ovviare alla situazione, allontanando lo sguardo e fermandosi ad allacciare il cinturino. Con la coda dell’occhio, aveva colto il mezzo sorriso sornione di Elena; a quel punto, la risata di Elena, squillante e sfacciata aveva tolto entrambe dall’imbarazzo.
«Ordunque che nuove mi porti?» chiese Francesca.
Elena non se lo fece ripetere due volte.
«Walter e Roberta si sono lasciati. Te lo aveva anticipato, ultimamente in Milonga arrivavano con visi tirati e non ballavano quasi mai con nessuno».
«Ma dai, non posso crederci, ma tu come lo hai saputo?» chiese con curiosità Francesca.
«Da nessuno, ho visto con i miei occhi. Sono andata a Vicenza, con Andrea e Chiara, al Gattomatto, e chi ci trovo? Walter che balla con Marialisa, tutta sera. Una milonga fuori mano, non conosciuta, sicuramente, volevano mantenere l’anonimato.»
«Ma dai! Nel mondo del tango, non sono mica così ingenui. Ti sembra poi che Marialisa sia una che si nasconda? Era inevitabile. Hai presente Roberta, troppo accondiscendete, surclassata dalla presenza di lui. – Dove la metteva lei stava, sempre in ordine e perfetta, un bel corpo, un bellissimo sorriso ma a ballare, non era certo all’altezza di lui.»
Elena dispiaciuta per Roberta, riconosceva un fondo di verità nelle parole di Francesca, ma vi leggeva anche una dose di repressa invidia per una posizione di centralità che per quanto ambigua Roberta aveva goduto in questi anni con Walter, Francesco ormai da molto tempo non le concedeva più neppure quello.
Roberta non si era resa conto dell’egoismo un po’ narcisista di Walter.
Walter in quei cinque anni di relazione, aveva cercato di gestirla nel modo più sincero che poteva. Ma lei, aveva conosciuto la moglie di Walter, Silvia, sapeva che di questa donna non ne era profondamente innamorato. Invaghito, anestetizzato dalla dolcezza e bellezza di Roberta, orgoglioso e caparbio nel non voler ammettere di aver sbagliato, questi erano gli elementi fondamentali che tenevano unita la coppia.
Elena aveva osservato in silenzio e le tensioni tra loro, non erano solo un aggiustamento nell’unione di vite professionali e private, per quanto nelle foto apparissero sereni e felici, mancava la rinuncia del proprio bene per l’altro. Walter non si era volutamente dato il tempo di elaborare la separazione.
La scelta affettiva di Roberta ed il lavoro estenuante di questi anni, gli avevano permesso di ricontrollare la sua vita ed assorbire gradualmente il grande vuoto lasciato da Silvia, la sua compagna di vita.
Meglio un amore dove era lui a governare le emozioni che viceversa.
Elena aveva provato un’infinita tenerezza quando aprendo facebook le era comparso il post di Roberta di pochi giorni prima. Sorridente con un’amica, sottolineava la capacità e la dignità di non scendere a compromessi e forse pensava Elena, in quella frase, ella aveva anche voluto difendersi dalle malelingue e da, quei pensieri oscuranti alla sua felicità di coppia.
Probabilmente, avvertiva, senza legittimarsela, quella leggera ansia nata dall’insicurezza di una relazione basata su una forte attrazione fisica e condizioni lavorative favorevoli. Sapeva a cosa sarebbe andata incontro, ma lo aveva sempre voluto ed ora che il conto stava per presentarsi alla cassa, le assaliva la rabbia dell’impotenza.
Il gioco ne era valsa la candela?
Amarezza, amarezza di compromessi, Roberta ne aveva ingoiati diversi, per assaporare quel brivido di entrare in milonga al braccio di Walter, il posto riservato nei locali, lo sguardo invidioso delle altre donne, il sorriso compiaciuto degli uomini.
Le erano state offerte su un piatto d’argento l’opportunità di una crescita personale e artistica della quale da sola non avrebbe mai neppure varcato la soglia.
Eppure ora, tradiva non solo sé stessa, ma tutte le donne, risplendeva di luce riflessa, non si accorgeva di come l’immagine di geisha servizievole e solo apparentemente conturbante, avesse creato un fascino dal potenziale seduttivo, attraverso il quale era riuscita fino ad allora ad incantarlo e tenerlo legata a lei.
Roberta, senza accorgersene, perdeva quella indipendenza e sicurezza in sé stessa, lentamente le sue opportunità di lavoro ruotavano sempre e solo intorno a lui.
Si era adattata ad un regime alimentare rigido e ad un allenamento fisico costante per rimodellare il suo corpo in base alle aspettative di Walter.
Lo aveva accompagnato nelle occasioni ufficiali, stando un passo indietro, sia come partner nelle esibizioni, sia come insegnante nelle lezioni di tango.
Non si era risparmiata in niente, ci aveva creduto con tutta sé stessa e nonostante la grande differenza di età, aveva accolto i momenti di silenzio e di riposo che lui necessitava, proteggendolo da tutti, rinunciando silenziosamente alla sua esuberante giovinezza.
Un sassolino, tutto era iniziato casualmente, comprese la non sincera reciprocità.
Aveva detto basta, ma poi in Walter, che si era sentito rifiutato, ma non era riuscito ad ammetterlo a sé stesso, perché questo gli avrebbe fatto realizzare il fallimento, della sua relazione, qualcosa cambiò. Automaticamente la sua psiche, si era attivata.
Nel subconscio, il dolore dell’abbandono creava quella tensione emotiva che lo portava al piacere, alimentando il bisogno di Roberta.
Lui, Walter, l’uomo dal fascino silenzioso e conturbante, aveva la capacità di erotizzare la parola, quel chiacchierare intimo profondo e attento, riusciva ad alimentare l’ attesa, una lenta seduzione, giocata sull’emozioni di passionalità che così bene sapeva creare, proprio come gli accadeva quando preso dalla creatività del ballo trasmetteva le stesse vibrazioni a chi lo stava guardando mentre si esibiva.
Roberta lo sapeva bene, era sempre stata consapevole, come solo una donna innamorata sa esserlo, di non essere profondamente amata da lui.
Quello di cui non era consapevole, era di essere caduta nel tranello più antico del mondo, riflettere all’esterno un’immagine di serena gaiezza non vera di se stessa.
Le sue affermazioni di dignità erano parole prive di azione.
«Sai, non credo che Roberta ancora lo sappia» affermò Elena.
«Non mi sorprenderebbe affatto, a lasciarsi ufficialmente ne avrebbero da perderci entrambi. Lui dovrebbe ammettere, o che non era innamorato di lei o che non lo era della prima moglie. Passare da una relazione all’altra, senza neppure il tempo di un caffè, non è certo segno di maturità e neppure di un uomo di sentimento e di valore. La sua immagine pubblica ne risentirebbe troppo, dovrebbe togliersi la maschera e risultare quello che è un opportunista.»
Le parole crude di Francesca avevano innescato in Elena un certo turbamento.
«Fermati Francesca, non sono d’accordo su quello che stai dicendo di Walter, lo giudichi senza saperne niente. Inoltre stai sovrapponendo cose tue che forse riguardano la tua relazione con Francesco ma non la persona di Walter. Un uomo confuso, forse sì, ma chi è che non lo è oggi, ma soprattutto non prendi inconsiderazione quello che ha sofferto.
Forse ho visto un inizio di una parentesi tra Walter e Marialisa l’altra sera. Io ero presente, li ho osservati attentamente.
L’affiatamento di quei due mentre ballavano era palpabile, creava un’energia di comunicazione con il tango.
Diamo tutti per scontato che una relazione sia per sempre.
Ma non lo è.
È la più grande costrizione sociale che ci siamo imposti senza rispettarne la natura, non riconoscendo e legittimando un sentimento d’amore, come qualcosa che si rigenera e si rinvigorisce, perché si sceglie di amare. Probabilmente Roberta e Walter hanno vissuto un innamoramento intenso e vero, ma non amore.
Il vero problema è l’ipocrisia che accettiamo, nel momento che comprendiamo di esserci sbagliati.
Vendiamo i nostri sogni.
Davanti alla paura della solitudine e della vecchiaia mascheriamo il sentimento d’amore per qualcos’altro.
Fosse vero che Roberta riuscisse a lasciarlo per prima.
Invece rimarrà, accettando anche tutte le sue nuovi brevi o lunghe ed intense passioni, sapendo che alla fine Lassie torna sempre a casa.»
«Che palle che mi fai venire, io ho bisogno di leggerezza la quotidianità di un amore toglie la leggerezza…e sto per entrare in Ospedale.»
Francesca rallentò era in coda all’uscita della tangenziale.
«Ti lascio ora. Ne riparliamo sabato.»
«Va bene, mi raccomando tienitelo per te vedremo nelle prossime milonghe che cosa accadrà. Certo che Walter e Marialisa… ma come si saranno conosciuti?».
A conversazione chiusa, Francesca si sentì infastidita, lo stomaco le si era leggermente contratto.
Si disse che doveva smetterla di rispondere alle chiamate di prima mattina di Elena.
Le piaceva molto quando sapeva con leggerezza risultare frivola, ma la sua era una frivolezza acuta, tanti non si rendevano conto della profondità dei sentimenti espressi da Elena.
Non era un aspetto della sua personalità immediata, ma Elena nell’analisi degli altri, nel confrontarsi con se stessa e nel costringerti a riflettere toglieva ogni velo protettivo, mettendo a nudo la tua vulnerabilità.
Non si rendeva nemmeno conto di farlo, ma la comunicazione era priva di quei doppi binari che gli adulti utilizzano, sembrava quasi che la capacità di visione sulle cose fosse rimasta ferma all’età della fanciullezza, una trasparenza lineare, alla quale si sommava la profondità di una vita trascorsa.
Tutto ciò era disarmante e contemporaneamente complesso.
L’amore disperato, un nome ed un aggettivo che, accoppiati, innescano in noi immagini, sensazioni e ricordi.
Chi, nella propria vita, non ha provato almeno una volta l’esperienza di un amore disperato. Ogni epoca ha i suoi riferimenti. Storie vere ricordate da testimonianze di vita: poesie, canzoni o film, tutte forme espressive di una riflessione intima, messa in condivisione per crescere e maturare nella conoscenza dell’essere umano.
Amo questa parola: “essere umano”, nel dirlo mi sento libera di non dover usare, un maschile, ma neppure un femminile.
Se immagino questo concetto di “ essere umano” come la luce con la quale mi illumino la strada della conoscenza, mi appresto a riflettere sull’interpretazione dell’amore disperato.
Due sono i testi che ho comparato, la cui bellezza è condivisibile e comprensibile sia per chi ama l’opera, ma anche per chi ama il tango:
L’aria “Oh mio Babbino” tratta da Gianni Schicchi di Giacomo Puccini e il tango “Gricel” scritta da José Maria Contursi.
Alcuni brevi cenni sono necessari per contestualizzare ed apprezzare a pieno le due proposte di confronto che ho scelto e l’attualità che, ancora oggi, conservano.
Le tematiche importanti della vita sono sempre le stesse, siamo noi attraverso la comprensione di un linguaggio emotivo, come direbbe Massimo Recalcati, a dare una risposta diversa.
Giacomo Puccini scrisse molto velocemente il Gianni Schicchi, nel 1917 a 59 anni, durante la stagione invernale nel suo Villino di caccia. È l’ultima opera della composizione del Trittico, ossia tre opere di un atto solo, in un’unica rappresentazione: Tabarro (primo atto), Suor Angelica (secondo atto) e Gianni Schicchi (terzo atto).
La storia di Gianni Schicchi è raccontata da Dante nell’Inferno, che lo colloca nel girone dei Falsari.
Siamo nella Firenze medievale, prospera e in pieno sviluppo economico, si iniziano a distinguere i “nuovi ricchi” dalle famiglie più importanti della città, le quali si ritrovano costrette a condividere aree di potere e di influenza con i nuovi arrivati.
La Famiglia Donati, di mercanti molto ricca e molto conosciuta, si trova d’improvviso a dover gestire una situazione delicata e quanto mai complessa. E’ morto il capofamiglia, Buoso Donati ed il testamento conferma la volontà del defunto di voler lasciare tutto in mano ad un convento di frati.
I parenti disperati si rivolgono a Gianni Schicchi per la sua fama di uomo astuto e capace di risolvere qualsiasi situazione incresciosa.
Gianni Schicchi è convocato e, si presenta per l’affetto della figlia Lauretta, che è innamorata del nipote del defunto, Rinuccio.
Ben presto, Gianni Schicchi si rende conto di essere in un vero nido di vipere, viene offeso e decide di lasciare la casa. Ma le parole e la disperazione che sente nel canto della sua Lauretta lo inducono ad indugiare.
“O mio Babbino caro,
Mi piace è bello, bello.
Vo’ andare in Porta Rossa
a comperar l’anello!
Si, si ci voglio andare!
E se l’amassi indarno
andrei sul Ponte Vecchio
ma per buttarmi in Arno
Mi struggo e mi tormento
Oh Dio, vorrei morir
Babbo pietà, pietà
Babbo, pietà, pietà”
La commozione e l’intensità del sentimento di Lauretta sono tali che Gianni Schicchi desiste e decide di aiutare la giovane coppia a realizzare con furbizia il loro sogno d’amore.
Gianni Schicchi si sostituisce allo zio morto, nel frattempo viene chiamato il notaio e dettate le volontà in base agli accordi presi precedentemente con gli eredi.
Grande è la sorpresa quando si arriva a designare il podere e la proprietà più fruttifera al suo più caro amico, e non ai nipoti. Tra beffa ed inganno Gianni Schicchi ne esce più ricco di prima. Tutta l’opera è giocata su melodie veloci e orecchiabili, per tenere il ritmo serrato della storia.
L’unica aria intensamente drammatica è quella cantata da Lauretta nella supplica che rivolge al padre, il dolore sarebbe tale da considerare il suicidio, un amore disperatamente intenso e legato ad una grande passione.
È lo stesso sentimento che viene espresso nel testo di Josè Maria Contursi verso la donna che ama appassionatamente ma non può avere, Gricel.
Quest’ultima però è una donna vera, quello che il testo descrive con parole poetiche ed una lirica musicalmente struggente, è la storia reale di un uomo e di una donna che hanno segnato la storia del Tango.
Josè Maria Contursi, figlio di un grande drammaturgo e compositore Pascual Contursi, era partito bene avendo ereditato le capacità artistiche del padre e ne fa presto buon uso raggiungendo una fama tale da essere conosciuto come “Duque de la Noche Portena”.
Giovane, alto, moro, modi gentili e parlantina poetica, aveva in mano un poker d’assi.
L’incontro con Gricel, era predestinato, la fatalità di un amicizia in comune porta una giovanissima Gricel di soli 14 anni a sperimentare l’emozione di un colpo di fulmine.
L’incontro avvenne presso la trasmissione radio Stentor, dove delle amiche di Gricel, Gory e Nelly Omar, hanno un’ audizione e lei le accompagna.
L’incontro è breve, ma tanto era bastato, perché si creasse quell’ alchimia tale che niente poteva più essere come prima.
Josè Maria Contursi, Katunga per gli amici, è già sposato e padre di una bambina a soli 23 anni.
Da questo loro primo incontro, trascorsero diversi anni prima che si rivedessero, sarà il destino a far incrociare nuovamente le loro strade.
La necessità di riprendersi da una lunga malattia porta Maria Josè Contursi a trascorrere un periodo di convalescenza in montagna, la scelta ricade proprio sul paesino dove viveva Susana Gricel Viganò.
L’amore ha un percorso tutto suo di farsi strada negli animi umani e stolto è lo sguardo dell’uomo se si sofferma a giudicare.
Maria Josè abbandona Gricel ritorna a casa da sua moglie e suo figlio, ma il pensiero di lei non lo abbandonerà mai.
La sofferenza di questo amore disperato, sarà la vena pulsante di tutto il suo repertorio artistico.
Le parole anche qui, come per “Oh mio babbino”, perdono d’ intensità se le leggiamo lontani dalla musica.
Il canto lirico, come il tango canción è una fusione di poesia in musica.
No debí pensar jamás en lograr tu corazón y sin embargo te busqué hasta que un día te encontré y con mis besos te aturdí sin importarme que eras buena… Tu ilusión fue de cristal, se rompió cuando partí pues nunca, nunca más volví… ¡Qué amarga fue tu pena!
“Non ho mai dovuto pensare a conquistare il tuo cuore, tuttavia ti ho cercata fino al giorno che ti ho trovata e con i miei baci, ti ho stordita senza che mi importasse della tua bontà.. la tua illusione fu di cristallo, si ruppe quando partì poiché mai, mai piùtornai…Quanto amaro fu il tuo dolore.”
Poche volte ho letto parole cosi coerenti e oneste nel riconoscere la responsabilità delle conseguenze di quando si ama con l’anima.
Buon ascolto di entrambe le arie.
Nella diversità che noterete, vi è una completezza che porta ad una comprensione profonda di noi stessi.
Gricel – letra di Maria Jósé Conturi, musica di Mariano Mores – canta Roberto Goyeneche – orchestra tipica Atilio Stampone
Gricel – Anibal Troilo, Francisco Fiorentino – traduzione Carla De Benedictis