Nella splendida Sala dei Giganti del palazzo Capitaniato a Padova, il 26 Giugno, Hugo Aisemberg si è esibito al pianoforte, accompagnato da Juan Lucas Aisemberg alla viola, Jean Gambini al contrabasso e Fabio Bonora al clarinetto. Ha eseguito un repertorio diviso in tre parti. La prima parte, una dedica personale a Piazzolla, la seconda parte una preghiera evocativa intima dedicata alla musica ebraica, un grazie alle proprie origini e la terza ha concluso l’esibizione con un dolce abbraccio porteño. L’ impatto con il pubblico è stato immediato ed ha creato quello stato di empatia che non ha mai abbandonato la tensione emotiva. Il maestro Hugo Aisemberg ha proposto un Piazzolla meditativo; i brani scelti: Alevare, Kicho, Milonga del Angel e Muerte del Angel. Le pause e la delicatezza del tocco del pianoforte del maestro hanno smussato l’aggressività tipica delle tradizionali esecuzioni di Piazzolla.
La musica ebraica è stata una sorpresa. I brani eseguiti da solo piano e violino, con magistrale grazia di Prayer Ernest Bloch e Dos Fidele Marina Krutojarskaja, ci hanno lasciato con l’anima sospesa nel cielo,
Hugo Aisemberg e Lucas Aisemberg hanno unito i loro respiri musicali un inteso che andava oltre la preparazione tecnica era un linguaggio intimo tra padre e figlio. Gli applausi nel pubblico si sono da lì in poi smorzati, perché tra un esecuzione e l’altra applaudire sembrava interrompere il legame di intimità,non facile da spiegare a parole, che si era creato.
Gli ultimi due pezzi presentati Sholem-Alechem, rov Feidman! Di Béla Kovacs e Odessa Bulgarish ci hanno permesso di cogliere l’agilità e l’interpretazione del clarinetto suonato da Fabio Bonora, mentre Jean Gambini, contrabasso, ha accompagnato l’ Ensemble Novitango con rispettosa dedizione.
La terza parte, un abbraccio porteño con musiche arrangiate dal maestro Hugo Aisemberg, ci ha regalato la leggerezza. È iniziata con una milonga, Reliquias Porteña, Graciano De Leone, seguita da Gallo Ciego di Augustin Bardi, Oblivion di Astor Piazzolla, Taquito Militar di Mariano Mores e la Cumparsita di Gallo Matos Rodriguez.
Quest’ultima parte del programma con i pezzi citati, ha evidenziato come la musica di Tango può raggiungere un’espressività artistica che è difficile da percepire, se suonata solamente in milonga, i tangueri presenti in sala abituati a ballarli ne avranno colto la differenza.
Le esecuzioni dei brani musicali , Reliquia Porteñas, Oblivion e la Cumparsita, sono state accompagnate dalla coppia di ballo Nayhara Zeugtrager e Silvio Grand che ha saputo con grande raffinatezza ed eleganza non distogliere l’ attenzione dal focus centrale della serata, la musica, utilizzando il movimento coreografico del corpo come uno strumento musicale d’accompagnamento.
Quello di ieri sera è stato un concerto che il pubblico padovano porterà nel cuore, la presenza dei maestri di tango delle diverse associazioni, ha confermato la voglia di crescere culturalmente e di diffondere la conoscenza musicale al di fuori della milonga.
Il XXII edizione Padova tango festival, nel quale era inserita la programmazione di questo concerto, si avvia alla sua conclusione, determinante il contributo di Alberto Muraro l’ideatore.
Concerto: Tango dalla musica ebraica ad Astor Piazzolla – Sala dei Giganti (Pd)Da sinistra verso destra: Nayhara Zeugtrager, Juan Lucas Aisemberg, Hugo Aisemberg, Fabio Bonora, Jean Gambini e Silvio Grand
ll BLOG “UN TANGO CON IL TENORE” ha raggiunto da poco un anno di vita.
Il Blog è nato per caso, sulla spinta di correnti sinergiche che inaspettatamente, senza nessun tipo di connessione si sono incrociate, un po’ come in fondo è accaduto per l’inizio del Big Bang, dando il via alla creazione del pianeta terra, così altrettanto ha preso forma l’idea di scrivere di tango e lirica.
La similitudine descritta è ovviamente in senso ironico, anche se il Blog è stato per la mia vita un vero Big Bang e le persone coinvolte, che hanno creduto e sostenuto Rosaspina Briosa, hanno in comune la stessa caratteristica: la forza di perseverare nei sogni.
Giuseppe Scarparo, Chiara Cecchinato, Alessandro Uccello con Angela Lucerna, Nicoletta Santini e l’Inviato speciale in incognito, grazie !
In un mondo sempre più virtuale, dove tutto è raccontato a tempo immediato, senza più pause per assorbire e sviluppare un proprio senso critico, al punto tale che non riusciamo più a distinguere la realtà della vita da quella che ci viene raccontata, ho pensato di ringraziarli con una breve video intervista, cercando di cogliere la loro gioia per la vita.
Il primo è Giuseppe Scarparo che una mattina di Marzo, mi chiamò svegliandomi e mi domandò: “ Svelta dammi un nomeche sto registrando il blog per te!” Così, spontaneamente e mezza addormentata il mio cuore parlò : “Un tango con il tenore“
Il video che segue è il risultato di una piacevole chiacchierata sul tango con un Maestro fuori dalle righe …
Le parole scorrono veloci quando si parla di argomenti a noi cari, l’ esperienza si accumula e diventa occasione per riflettere.
Maria Caruso ci guida nella comprensione del Tango, un contributo significativo la sua adesione alla Maratona Tangoroyal2021 Genova: “La speranza in un abbraccio” a sostegno dell’Associazione Alzheimer Liguria.
Turandot, l’ultima opera di Puccini è il suo lavoro più emblematico. Ogni tassello della composizione, osservato a ritroso con le informazioni analizzate e ricostruite da più storici, ci porta a notare gli intrecci tra la vita artistica e personale del Maestro Giacomo Puccini, al punto tale, che il paragone di ciò che questo componimento artistico più di altri, ha rappresentato per il Maestro, è plausibile fino a poter proporre il seguente confronto con il tango : “Turandot è la tanda perfetta, la connessione armoniosa tra anima e respiro nella musica”.
Senza saperlo Puccini cercava questo e come ogni tanguero inizia la ricerca con sé stesso nella musicalità della vita, lui che era il maestro dei maestri, si perse nella selva oscura come accade a Dante.
Il respiro della Turandot lo aveva messo difronte alle sue contraddizioni di uomo e l’artista che era in lui, avvicinandosi alla fine, sia dell’opera che della sua vita, voleva redimersi tramite il perdono.
La consapevolezza di voler lasciare un messaggio ai posteri, un vero e proprio testamento dal duplice significato; uno musicale, di collegamento tra la chiusura di un’epoca, il melodramma lirico come fino ad allora era stato conosciuto, e l’apertura di una nuova musicalità. Un input per le generazioni future, il secondo messaggio era personale e non leggibile a tutti, ma nascosto tra la tessitura della partitura musicale e la trama del libretto; tale era la consapevolezza di tutto ciò nel Maestro da non riuscire a concludere Il finale.
L’opera era praticamente già ultimata nel Marzo del 1924, Puccini aveva portato a termine una delle arie più toccanti ed impegnative “tu che di gel sei cinta” intonata dalla serva Liù prima della sua morte.
Con il canto di addio Liù rappresenta l’archetipo dell’amore femminile, dolce ingenuo e puro, si sacrifica e rinuncia alla sua vita per Calaf. Il gesto segna profondamente l’animo interno di Turandot dando il via al suo cambiamento interiore. A questo punto manca solo il finale, ma in 8 mesi Puccini non riesce a completarlo, questa volta è il tempo in modo inesorabile a decidere per lui.
Puccini morì all’età di 65 anni, il 29 Novembre del 1924 in modo molto repentino e del tutto inaspettato.
A seguito di una diagnosi tumorale alla gola, da uomo d’azione e concreto quale era, intervenne tempestivamente facendosi operare a Bruxelles.
L’operazione riuscì, ma a pochi giorni di distanza un arresto cardiaco improvviso ne causò la morte.
Lasciava 22 fogliettini scritti in ospedale, pieni di cancellature e ripensamenti, un enigma che in questi anni ha messo alla prova diversi compositori, prima di tutti Franco Alfano al quale venne dato l’incarico di completare la partitura musicale del finale della Turandot con l’approvazione di Arturo Toscanini.
Sappiamo che prima di partire per Bruxelles, Puccini ebbe un incontro con Toscanini, testimone delle sue riflessioni ed esitazioni sull’opera, sentiva e temeva di non poterla concludere, tanto che avendo designato lui come direttore della prima, scherzando avevano concordato il finale in caso della sua morte: alla prima, dopo l’aria di Liù, l’opera si sarebbe conclusa e Toscanini avrebbe in teatro declamato il suo epitaffio.
Puccini si era reso conto analizzando la logica della trama di Turandot, seguendo lo sviluppo armonioso e consequenziale degli avvenimenti e la struttura psicologica dei personaggi, che il cambiamento di Turandot era troppo repentino e non era neppure sincero l’amore di Calaf. Questa disarmonia l’avvertiva anche nell’espressione musicale, tant’è che non era soddisfatto.
Entrò in crisi, lui attento osservatore del libretto e profondo conoscitore del mondo femminile. Le donne le aveva amate denunciando l’ipocrisia di una società borghese che non riconosceva a loro diritti e protezione concreta, (basti pensare alle trame di Butterfly, Manon Lescaut). Si rese così conto che lui stesso stava tradendo l’essenza stessa di Turandot.
Turandot è tradita da tutti e la sua crudele freddezza viene enfatizzata da superbia e distacco, sono strumenti che utilizza per proteggersi, creando un distacco dissociativo tra lei, il suo intimo e gli altri.
E’ tradita da suo padre che non le riconosce il diritto della scelta di non amare.
E’ tradita dal suo popolo che non la comprende, la teme, per la sua sete di morte.
E’ tradita da Calaf che l’ama nonostante veda nella sua bellezza la sua crudeltà e neppure davanti all’atto più vile che lei compie, togliere la vita ad un’altra donna, la serva Liù, rinuncia a lei.
Liù, una figura femminile, pennellata musicalmente con una delicatezza tale che per quanta tecnica e genialità Puccini avesse, può nascere solo da un sentimento riconosciuto e provato per un’altra donna in vita da lui stesso. Liù ama segretamente, profondamente e con consapevolezza Calaf, al punto tale di anteporre la felicità di lui alla sua, non rivelando il suo nome e nel silenzio accetta la sua morte.
E’ innegabile il legame tra il personaggio di Liù e la figura femminile di DoriaManfredi, la giovane cameriera accolta in casa Puccini ancora ragazzina, crescendo diventa una giovane donna, bella e affettuosamente legata alla famiglia che l’aveva accolta. Possiamo immaginar che provasse per Puccini, probabilmente un sentimento di puro innamoramento, tanto intenso quanto sincero. Non ci è dato di sapere se contraccambiato o no, sappiamo però che la gelosia e gli abusi psicologici di Elvira, la moglie di Puccini, portarono la giovinetta all’età di 20 anni al suicidio.
l legami tra Puccini, Elvira e Dora, sono estremamente sovrapponibili all’intreccio di emozioni che l’uccisione di Liù da parte di Turandot provoca, legando così i ruoli dei personaggi principali, Calaf, Turandot e Liù alla stessa vita reale di Puccini.
Nasce probabilmente da qui la grande difficoltà, tutta interiore con se stesso, di terminare l’opera.
Turandot / Elvira é tradita da Puccini, che nel mistero della favola enfatizzato dall’ambientazione orientale, imperniata da simboli esoterici, la rende prigioniera di se stessa: traumatizzata al punto tale di vivere come flash-back la violenza perpetuata nei confronti di una sua ava, come sua, non le concede l’indipendenza psicologica dalla figura maschile.
Turandot è prigioniera della volontà maschile, come lo era Elvira, al punto tale che per potersi liberare deve diventare crudele, la sua è una prigione dorata. Se Calaf vincesse la prova di svelare i tre enigmi diverrebbe il suo nuovo guardiano, da qui la lotta interna di Turandot.
Turandot non si salva da sola, attraverso un percorso di consapevolezza e di maturità dei sentimenti, affrontando le sue paure e comprendendo che il “qui e ora” non è il passato. L’ amore di Calaf, non è un amore liberatorio e maturo, manca il pentimento di Calaf, (manca il pentimento di Puccini), riconoscersi come uomo egoista che ha voluto nel proseguire la sua scelta d’amore o di ambizione, non tener conto delle conseguenze: il sacrifico della vita di Liù. Amare significa rischiare di essere rifiutati, è il passaggio di maturazione culturale e sociale necessario per riconoscere la vera indipendenza alla donna.
Rispettare il suorifiuto. Questo è il messaggio rivoluzionario che come ultimo omaggio, Puccini se avesse potuto avrebbe scritto, un’aria cantata da Calaf, dove dichiarava il suo pentimento e si assumeva la responsabilità della morte di Liù, come lui forse era riuscito a perdonarsi all’ultimo della tragedia di Doria, riconoscendo che attraverso il suo comportamento aveva spinto Elvira ad un amore ossessivo nei suoi confronti.
Questo anello mancante, che oggi come Rosaspina e come donna mi sento di ipotizzare, darebbe una lettura ed un’armonia diversa al finale, toglierebbe allo spettatore quella sensazione di “vissero felice e contenti”, espressa troppo velocemente e in modo troppo superficiale, tramite termini che non appartengono a Puccini.
La maturazione di Turandot, da gelida Principessa a compagna di vita, passa attraverso un profondo rinnovamento e nasce da due eventi importanti: il pentimento di Calaf (nell’opera manca) e il sacrifico di Liù.
Sono essi a far si che Turandot non tema più l’altro, non lo veda come una minaccia, riuscendo così a riconosce la sua fragilità umana. Questo è il passaggio spirituale e psicologico che Puccini intuisce nel letto di morte cerca di trascriverlo musicalmente in quei famosi 22 fogli.
Un messaggio rivoluzionario nell’essenza stessa, avrebbe colpito al cuore un concetto di mascolinità, dove l’uomo è visto positivamente se ama e dichiara la sua passione, senza tener conto delle conseguenze (tradimenti, delitti d’onore, matrimoni imposti, rapimenti e violenze sessuali nascoste), avrebbe portato a riflettere e far tremare una società come non lo era stato neppure con la figura di Pinkerton in Butterfly.
Da qui in poi la trama si ricollega perfettamente, però c’è un “ma”, l’ultimo mistero nel mistero, quello al quale non potremmo mai dare una risposta se non come atto di fede.
C’è un “ma”, che appare all’ ultimo istante, se l’amore è autentico, e questo lo è, tra Turandot e Calaf lo é, ha la forza di quel passaggio di crescita che nasce solo dal confronto su un piano di parità tra uomo e donna.
Lo sguardo che si rivolgono l’un con l’altra è autentico ed il bacio che si scambiano avviene su un piano di reciproco perdono, hanno mentito a se stessi, hanno mentito agli altri, ma ora possono avviarsi insieme uguali nella luce che porta serenità e pace.
Vi è un tango il cui testo poetico parla di un amore non riconosciuto perché offuscato dal divenire della vita, racconta nelle sue parole un amore reale, difficile ed intenso che vi racconterò la prossima volta.
Gricel
Vi anticipo il testo delle parole in Italiano perché incornicia perfettamente questo post e getta una ulteriore luce nel legame tra poeticità lirica e poeticità tanguera.
Non ho mai dovuto pensare a conquistare il tuo cuore tuttavia ti ho cercata fino al giorno che ti ho trovata e con i miei baci ti ho stordita senza che mi importasse della tua bontà… la tua illusione fu di cristallo, si ruppe quando partì poiché mai, mai più tornai… Quanto amaro fu il tuo dolore!
Non ti dimenticare di me, della tua Gricel, mi dicesti baciando quel Cristo ed oggi che vivo nella pazzia perché non ti ho dimenticato neanche ti ricordi di me… Gricel! Gricel!
Mi mancò dopo la tua voce ed il calore del tuo sguardo e come un pazzo ti ho cercata ma mai ti ho trovata ed in altri baci mi sono stordito… Tutta la mia vita è stata un inganno!
Che ne sarà, Gricel, di me? Si è la legge di Dio perché le sue colpe ha già pagato chi ti ha fatto tanto male.
La sua fu una morte tragica ed improvvisa, un incidente in auto con la sua Lambda, perse il controllo, di ritorno da uno dei suoi viaggi.
Come era potuto accadere? Con questa domanda in mente ho iniziato a documentarmi.
Pochi anni prima nel 1926 il comune di Roma aveva deciso di acquistare il Teatro Costanzi, per poterne controllare la voce e trasformarlo in uno strumento di diffusione culturale del regime fascista. La scelta dell’acquisto, fu la soluzione finale per far stare zitta una donna; il cui impegno e risultati straordinari, come direttore artistico, avevano portato il Costanzi a divenire l’olimpo della lirica.
Emma Carelli, disturbava, non si allineava a nessuno stereotipo.
Da giovane soprano si caratterizzò fin dall’inizio nei ruoli drammatici, il dolore esposto della figura femminile rappresentava la forza interiore dei sentimenti di una donna e non più la fragilità angelica dell’eroina romantica. Si impose, a solo 22 anni, come riportato dalle cronache del tempo, per la sua intensa interpretazione nella parte di Margherita in Mefistofele, di Arrigo Boito. Ancora oggi è ricordata l’edizione del 1899, al teatro Costanzi, che la vide cantare con Enrico Caruso, definito il più grande tenore del mondo di cui quest’anno ricorrono i 100 anni dalla sua morte.
Era nata una nuova Divina nel panorama della lirica italiana.
Nella vita personale Emma Carelli, non si schierò mai apertamente con il movimento femminista, per lei la vera indipendenza nasceva dai fatti e non solo dalle manifestazioni in piazza. Coerente con le sue idee di indipendenza ella passò da prima donna nella lirica a diventare impresaria teatrale. Si individua un filo conduttore nel suo operato: non era donna da subire passivamente nessun torto. Si oppose con tutte le sue forze all’ ostruzionismo di Mascagni e a clima denigratorio portato avanti scientificamente dal regime fascista per delegittimare il suo operato e quindi toglierle il teatro.
Che violenza! Uno “Stai zitta” impostole dal regime, infangandone il nome e negandole un riconoscimento intellettuale, che avrebbe comportato come conseguenza ultima la cancellazione storica della sua memoria.
Renato Tomasino, nel suo libro “Le Divine”, dove presenta le biografie delle più importanti interpreti della musica lirica, ripercorrendone la storia dai suoi inizi ai giorni nostri, non la nomina tra le protagoniste del panorama artistico dei primi del 900.
Maschilismo intellettuale?
In questi giorni Michela Murgia presenta in libreria il suo ultimo lavoro dal titolo “Stai Zitta“, ed affronta queste tematiche, le stesse che subì EmmaCarelli. Sono trascorsi 95 anni ed è cambiato ancora troppo poco.
Quindi cosa aggiungere, se non la consapevolezza contemporanea che una meravigliosa creatura di solo 51 anni, oggi diremo all’apice delle sue potenzialità creative, venne stroncata da uno stress post traumatico, causato da un dolore talmente forte dal quale non riuscirà più a riprendersi. Un dolore talmente intenso da alterare la percezione del “qui e ora”. Dolore vivo, di pensieri ricorrenti che le fece perdere il controllo dell’auto, come forse aveva perso il controllo emotivo della sua vita. Nel 1928, si registrò il più alto numero di suicidi femminili nella storia del nostro paese. Non si utilizzavano ancora i psicofarmaci come mezzo per controllare il pensiero evolutivo della donna come lo diverrà negli anni ’50, per mantenere funzionale un sistema patriarcale.
Emma Carelli moriva lo stesso anno in cui nasceva America Franco Lao, 1928, e mi piace pensar a quest’ultima, come la degna erede dello spirito indomabile di Emma. Quanto hanno in comune queste due donne, pur avendo vissuto in epoche diverse, entrambe si sono battute per i loro sogni.
Meri Franco Lao, eternamente in viaggio, sperimenta tutto, scrittrice, musicista, ricercatrice espressiva della gestualità nella danza; tutto della sua vita la porta verso il tango, era predestinata a questa Mirada.
L’incontro con Astor Piazzolla è un connubio di scambio culturale ed energetico, ricco perché emotivamente sincero, e nasce dal riconoscersi viaggiatori consapevoli. Leggendo gli articoli di Meri Franco Lao su Piazzolla (www.sirenalatina.com) schietti diretti dalle prime parole ne intuisci la forza del suo pensiero che non concede sconti a nessuno.
Forse nasce da qui, il dispiacere che ho provato nel leggere le diverse biografie a lei dedicate. Anche quella nella enciclopedia della donna, cattura l’attenzione del lettore, nominando un suo amore giovanile, che come tale forse, avrebbe dovuto rimanere custodito.
Peccato, che nessuna biografia maschile del soggetto fa riferimento a Meri Lao, come passione giovanile di lui e come forse questo dono prezioso che si scambiarono, abbia in qualche modo influenzato la sua vita di uomo e di artista, cosa che invece viene sottointeso in quella di lei. Che ironia, che tristezza legare all’immaginario collettivo il riconoscimento di un talento proprio di Meri Franco Lao alla visibilità dell’occhio di un uomo, ancora agli albori, prima che completasse il suo percorso di studi e di vita. Lei, proprio lei, che nel testo della canzone, “Un uomo senza donna”, conclude con questa domanda “che cazz’è che cazz’è?” ne fa il suo testamento letterario, legandolo alla frase anonima scritta nel 1969 sul muro dell’università del Wisconsin – Madison “Una donna senza un uomo è come un pesce senza bicicletta”.
Cosa dire, solo una riflessione personale, siamo condizionati a livello inconscio e programmati socialmente e culturalmente per reagire di fronte a connessioni logiche ed emozionali, che sfuggono al nostro volere consapevole.
Meri Lao ha avuto i suoi “Stai zitta”, e più di uno, perché ha vissuto più a lungo di Emma Carelli, in una dimensione multimediale che le ha permesso di risuonare in tutto il mondo. Anche lei come Emma Carelli non era donna da subire in silenzio. E lo “Stai zitta”, che più le è pesato, è quello legato alla mancanza di riconoscimento dei diritti d’autore da parte della Siae per la sua canzone “Un uomo senza donna” utilizzato nel Film di Fellini, la Città delle donne. L’ emancipazione femminile nasce dal riconoscimento economico di parità al maschile. Mai come oggi al tempo del Covid, questo è di vitale importanza, non solo per la donna, ma per un senso di giustizia e dignità umana.
L’attenzione su questi fatti è un atto dovuto, perché il pensiero acquista valore nel momento in cui l’azione è coerente.
Ho allegato il link della sua testimonianza ed altri per approfondire gli argomenti trattati.