10 luglio 2022, il concerto al Vittoriale di Vecchioni rimarrà una data storica per coloro che hanno potuto assistervi, uno spettacolo magistralmente gestito sotto lo sguardo della Luna, pure lei ieri sera ha pianto.
Vecchioni, un poeta, uno degli ultimi cantautori del ventesimo secolo, ha presentato ogni canzone partendo da una riflessione personale, arricchendola di aneddoti e citazioni che hanno strappato più di una risata.
Samarcanda questa volta ha aperto il concerto, un omaggio alle nipotine presenti in sala, che si erano lamentate con il nonno perché solito inserire questo brano in chiusura dei suoi spettacoli, e loro troppo stanche, addormentandosi lo perdevano.
Vecchioni ci ha preso per mano, uno ad uno e nelle due ore e mezza che sono seguite, ci ha fatto vedere una notte illuminata dalla parola amore.
Un amore grande per la vita e per l’uomo, rammentandoci che è la forza del nostro sorriso a determinare gli anni della nostra vita.
Le canzoni più belle si susseguono e sono i versi a rimanere leggiadri nella loro profondità:
“ogni destino nasce dentro un addio, oppure il mio mestiere è la mia ragazza e tutta la bellezza mi scappa via e mi lascia una malattia, tutta la bellezza se ne va in un campo, la bellezza che è la tua e la mia muore dentro in un canto.”
Gli applausi si susseguono e il pathos raggiunge il suo massimo alle prime note di caro amico Vincent, le parole, i colori è la voce del cuore che canta e senti sulla pelle gli ultimi raggi del sole che baciano i girasoli.
La band, lo segue nelle sue variazioni Massimo Germini alla chitarra, Antonio Petruzzelli al basso, RobertoGualdi alla batteria e Max Elli alla tastiera del pianoforte.
Le canzoni di Vecchioni, come le arie dei grandi compositori, siano essi lirici o di tango, lasciano nei nostri cuori una forza speciale che ci rende temprati alle sferzate della vita, perché la luce dei grandi artisti è contagiosa, perché appunto gli anni di vita si misurano … in sorrisi
Il buongiorno di Lucia Conte, è come il buon caffè alla mattina, rilascia un profumo avvolgente che ti accompagna per tutto il giorno. Le sue parole sono acqua pura, nascono da un profondo rispetto e amore per la musica e l’arte.
LUCIA CONTE: la voce del cuore tra Lirica e Tango
CARMEN, George Bizet – LUCIA CONTE, “Je dis que rien ne m’épouvante”
LA DIAVOLESSA, Baldassare Galuppi – LUCIA CONTE, “una donna che apprezza il decoro”
LA FUGA IN MASCHERA, Gaspare Spontini – LUCIA CONTE, “La mia lanterna magica”
LUCIA CONTE, “Histoira de un amor” – Letra y musica de Carlos AlmaránLUCIA CONTE
LETRA HISTORIA DE UN AMOR
Carlos Almarán
Ya no estás más a mi lado, corazón
Tu non sei più al mio fianco, cuore mio
En el alma solo tengo soledad
Nella mia anima tengo solamente solitudine
Y si ya no puedo verte
E se non posso averti
¿Por qué Dios me hizo quererte?
Allora perché Dio mi ha fatto innamorare di te?
Para hacerme sufrir más
Solo per farmi soffrire di più..
Siempre fuiste la razón de mi existir
Sei sempre stata la ragione della mia esistenza
Adorarte, para mí, fue religión
Adorati per me è come una religione
En tus besos encontraba
Nei tuoi baci ho incontrato
El amor que me brindaba
L’amore che mi hai dato
El calor de tu pasión
Il calore della tua passione
Es la historia de un amor
Questa è la storia di un amore
Como no hay otro igual
Diverso da tutti gli altri
Que me hizo comprender
Che mi ha fatto comprendere
Todo el bien, todo el mal
Tutto il bene, e tutto il male
Que le dio luz a mi vida
Che ha dato luce alla mia vita
Apagándola después
Per poi spegnerla poco dopo
Ay, qué noche tan obscura
Oh, Che notte oscura
Todo se me ha de volver
Senza il tuo amore non vivrò
Ya no estás más a mi lado, corazón
Tu non sei più al mio fianco, cuore mio
En el alma solo tengo soledad
Nella mia anima tengo solamente solitudine
Y si ya no puedo verte
E se non posso averti
¿Por qué Dios me hizo quererte?
Allora perché Dio mi ha fatto innamorare di te?
Para hacerme sufrir más
Solo per farmi soffrire di più..
Es la historia de un amor
Questa è la storia di un amore
Como no hay otro igual
Diverso da tutti gli altri
Que me hizo comprender
Che mi ha fatto comprendere
Todo el bien, todo el mal
Tutto il bene, e tutto il male
Que le dio luz a mi vida
Che ha dato luce alla mia vita
Apagándola después
Per poi spegnerla poco dopo
Ay, qué noche tan oscura
Oh, Che notte oscura
Todo se me ha de volver
Senza il tuo amore non vivrò
Ya no estás más a mi lado, corazón
Tu non sei più al mio fianco, cuore mio
En el alma solo tengo soledad
Nella mia anima tengo solamente solitudine
Y si ya no puedo verte
E se non posso averti
¿Por qué Dios me hizo quererte?
Allora perché Dio mi ha fatto innamorare di te?
Para hacerme sufrir más
Solo per farmi soffrire di più..
LUCIA CONTE, SOPRANO ITALIANO.
FONTI
Materiale fotografico reso disponibile da Lucia Conte
Macbeth è l’opera che più di altre Verdi ha profondamente amato.
Nei margini dello spartito originale, vi sono appunti e riflessioni intime, come spesso accade a tutti noi quando leggiamo qualcosa di molto caro, viene istintivo aggiungere qualcosa perché si teme di perderla.
L’attenzione per i dettagli come la sottolineatura dell’interpretazione recitativa e drammatica delle voci, che diverrà da qui in poi l’elemento di distinzione di tutti i lavori di Giuseppe Verdi, fa sì che il Macbeth, sia considerata l’opera di passaggio della sua formazione artistica, da quella giovanile a quella adulta.
Il libretto scritto quasi completamente dal Maestro, è la riduzione dell’opera di William Shakespeare, per poterla trasformare in quattro atti per il teatro lirico.
Verdi, grande ammiratore di Shakespeare, ha voluto riportare fedelmente la trama, motivo per il quale non concesse a nessuno questa operazione di taglio e scrisse il testo in prosa italiana, solo successivamente venne poi affidato alla penna di Francesco Maria Piave che ne curò la verseggiatura per il canto.
Il libretto subì ulteriori variazioni, una volta terminato, da parte di Maffei, che toccò due delle parti più importanti di tutta l’opera, il coro delle streghe e la scena del sonnambulismo di lady Macbeth.
Prima di addentrarci nel vivo della storia, procediamo con ordine.
I personaggi sono pochi: Ducano il re di Scozia, una figura che è quasi un’ombra, uno spettro ancora prima di essere ucciso, non canta e non parla.
Macbeth, baritono, protagonista di questa storia è colui che ucciderà Ducano e tradirà Banco, basso, suo amico, entrambi valorosi generali e compagni d’armi di Ducano.
Lady Macbeth, soprano, rappresenta la luce e l’oscurità per l’anima di Macbeth.
Verdi non ha bisogno di dare spessore psicologico ai personaggi, diremo noi oggi, attinge a piene mani dal lavoro originale di Shakespeare.
Il contributo del Maestro, consapevole dei forti tagli poetici che l’opera aveva subito, è tutto nel ridare poesia alla musica, quella ricerca melodica e drammatica che non lo abbandonerà più; la sua attenzione è poi rivolta nel trovare la voce giusta che possa esprimere l’anima di Lady Macbeth.
Questa, come afferma lo stesso Verdi, “non deve essere bella, ma una voce aspra, soffocata e cupa che avesse del diabolico“, questo è uno dei motivi per cui non si assiste spesso alle rappresentazioni di Macbeth al Teatro, occorre avere un soprano con queste colorature.
Macduff, tenore, nobile scozzese, Malcom figlio del re Ducano tenore e Flaenzo figlio di Banco, sono le altre figure presenti nel dramma, ruoli minori ai quali Verdi dedica molta cura.
Da subito Verdi vuole che sia ben chiaro l’importanza e la rilevanza che ha il coro.
Le streghe specifica chiaramente che devono essere divise in tre drappelli e sarebbe ottima cosa che fossero 6,6,6 in tutto 18.
Non certo quello che abbiamo assistito alla prima della Scala nell’ edizione del 2021, la movimentazione delle streghe coreograficamente non ha aggiunto niente, se non che, ha creato confusione nello spettatore, il Maestro avrebbe voluto che l’attenzione rimanesse sulla musica e il canto.
La trama sviscera le forme oscure in cui prendono forma: l’ambizione e il desiderio di potere, politica, donne e soldi, temi attuali a Shakespeare come a Verdi e anche oggi sono monito per la classe dirigente e colta del Paese.
Il pubblico che oggi ha assistito alla Prima, non era poi così tanto diverso da quello di Verdi e di Shakespeare quando lo rappresentò alla corte di Elisabetta I regina d’Inghilterra.
Ieri come oggi è un messaggio di monito di attenzione per la classe dirigente, dove l’aberrazione sfocia in un assassinio, premeditato e non passionale.
La profezia delle streghe, scatena l’ambizione in Macbeth e nella sua Lady, la complicità di coppia diventa terreno fertile per creare la congiura e manipolare la scalata sociale per arrivare al trono, al posto di potere, di comando decisionale.
Il teatro prende vita e quello che vediamo raccontato come una storia antica sul palcoscenico, non è poi tanto diversa dalle dinamiche che si svolgono all’interno di un palazzo politico, di una casa farmaceutica, di un’università o di un teatro stesso.
Non si arriva forse ad un omicidio morale, quando si utilizzano soldi pubblici per progetti non utili al bene comune? Quando si vendono vaccini ad un costo che genera un profitto eccessivo? Quando si nominano Rettori o Direttori artistici per garantire una cordata di alleanze a discapito di persone più preparate? O quando nei teatri di prosa come nella lirica si propongono contratti ad attori o cantanti per ruoli non adatti che devono interpretare?
Allora come oggi, sono gli artisti a sollevare quel velo di ipocrisia con il quale ci copriamo occhi. Purtroppo figure di riferimento, come fu Giovanni Zenatello per la lirica italiana, sono rarissime, al punto tale che non hanno la voce per imporsi nella confusione assordante del Foyer .
Shakespeare come Verdi, denunciano ruoli e comportamenti, che nella storia si ripetono e si perdono nella fragilità dell’essere umano.
Eppure anche questa edizione che voleva dare una lettura nuova e moderna, in realtà si è ritrovata intrappolata ancora prima di nascere nelle dinamiche del Macbeth stesso, non è riuscita ad evidenziare un archetipo storico.
“Condannare tutte le donne, per aiutare alcuni uomini fuorviati a superare il loro comportamento insensato, equivale a denunciare il fuoco, che è un elemento vitale e benefico, solo perché alcune persone ne vengono bruciate, o maledire l’acqua, solo perché alcune persone vi annegano”.
Sono parole della scrittrice Christine de Pisan, nata a Venezia nel 1364, storica bolognese che visse in Francia.
Già allora lei evidenziava come lo stigma di donna libera e determinata contenesse in sé un’ accezione come diabolica, ambiziosa e spregiudicata.
E’ Lady Macbeth la vera responsabile ed istigatrice dell’ambizione del marito?
La risposta ènella scena del sonnambulismo, Verdi si pone come se l’era posto Shakespeare, la stessa riflessione di Christine de Pisan.
Shakespeare ne fa una delle pagine poetiche più intense del Macbeth e Verdi non gli è da meno, scrivendo una delle più belle partiture musicali drammatiche, raccoglie nel tormento del canto di lady Macbeth, l’impossibilità di chiedere perdono: pietà, rispetto e amore era ciò che cercava.
La donna in questo ruolo identificato della fantasia collettiva, segnata marcata come diabolica, troviamo le origini di convinzioni collettive sul mondo femminile che ancora oggi la nostra società è portatrice. Verdi attraverso la musica e Shakespeare attraverso la prosa le donano, una chance di espiazione.
La mia conclusione personale è che Verdi era più moderno di noi tutti messi assieme e talmente lungimirante da scrivere che la sua opera non venisse rimaneggiata.
Vanità delle vanità, chi scaglia la prima pietra? Io di certo non lo farò.
Mi limito a suggerire agli appassionati di lirica una riflessione proposta da un canto tanguero, come ai tangueri che avranno letto questo breve articolo e si presteranno all’ascolto del Macbeth, sicuramente comprenderanno con più facilità la poeticità del linguaggio di questo tango.
La letra, è il termine utilizzato per il testo cantato nel tango, parla di un amore “senza parole questa musica ti ferirà, ovunque il tuo tradimento la ascolterà”.
Pentimento è il legame che ora unisce la coppia Macbeth, un tradimento reciproco è alla base del loro rapporto, h anno sacrificato il loro amore per l’ambizione del potere e del prestigio e genera dolore, così come l’amore perduto tra gli amanti è cantato in questo tango.
Sin palabras/Senza parole traduzione di Carla de Benedicts
Musica di Mariano Mores, Letra di Enrique Santos Discepolo
È nato da te
Cercando un canto che ci unisse,
e oggi so che è crudele, brutale, forse,
la punizione che ti do.
Senza parole questa musica ti ferirà,
ovunque il tuo tradimento la ascolterà…
nella notte più folle, nel giorno più triste,
sia che tu rida o che tu pianga la tua illusione.
Perdonami se è Dio
che ha voluto punirti infine
se ci sono lacrime che così possono continuare,
queste note che sono nate per amore tuo,
alla fine sono una tortura che rinnova le ferite di una storia…
sono pene, sono ricordi…
fantoccio ferito, il mio dolore, si alzerà ogni volta
che tu ascolterai questo canto!
Vostra Rosaspina Briosa®️, augura a tutti buon ascolto!
SIN PALABRAS, Robert Goyeneche
MACBETH, Giuseppe Verdi – 1 atto, Le Streghe
MACBETH, Giuseppe Verdi – PIETÁ RISPETTO AMORE, Ludovic Tèzier
MACBETH, Giuseppe Verdi – NEL DI DESLLAVITTORIA …VIENI T’ AFFRETTA …OR TUTTI SORGETE, Saioa Hernandez
MACBETH, Giuseppe Verdi – UNA MACCHIA É QUI TUTTORA, Anna Pirozzi
FONTE:
Charles Osborne; Tutte le opere di Verdi, (1979)
Carla De Benedictis; Parole Parole Parole di tango, (2018)
Vicenzo Bellini – Norma e Enrique Santos Discépolo – Tormenta
Il perdono è uno dei sentimenti più complessi con i quali nell’arco della nostra vita, prima o poi, tutti noi ci dobbiamo confrontare.
“Davanti a questa emozione il tempo è una variabile determinante” afferma Giovanni Jervis, noto psichiatra e sottolineando come questi influenzi il nostro modo di giudicare e di sentire.
Il perdono non è un obbligo e non è pertanto possibile istituzionalizzarlo per quanto ci si provi, rimane prima di tutto un atto libero e personale verso se stessi e verso l’altro.
Ho letto in questi giorni cercando di approfondire la complessità dell’argomento, che chi ha una stima tale da non ammettere che qualcuno lo possa offendere, non avverte il bisogno di perdonare, così come chi avverte l’offesa come un affronto alla propria dignità, non concederà il perdono.
I due casi estremi sono il riflesso e la sintesi della mancanza di dialogo, tanto si è narcisisti o fragili, quanto si innalzano muri in protezione.
La lirica e il tango sono in grado di accompagnarci nei sentieri di questa riflessione, lasciando ad ognuno di noi la libertà di cogliere sfumature diverse e forse abbassare quelle rigidità che ci portiamo dentro; riuscendo così a perdonarci e a perdonare.
Ho trovato particolarmente attuale l’opera di BelliniNorma, per comprendere la complessità della sua trama e le dinamiche degli attori principali, la chiave di lettura è il perdono.
Vicenzo Bellini, artista unico nella panoramica del Bel Canto Italiano, nacque a Catania il 3 Novembre 1801, morì a Parigi all’età di 34 anni nel 1835. Morì quindi giovanissimo ed oltretutto poco dopo il debutto della sua più acclamata opera, I Puritani, proprio come accadè quarant’anni più tardi a Bizet, a pochi mesi dal debutto dell’opera la Carmen, nel 1875.
Parallelismi e fili rossi invisibili legavano artisti unici in quegli anni a Parigi, l’amore e la creatività si intrecciavano come nei romanzi d’amore di quel periodo.
Rossini, Balzac e Bellini, tutti dovevano aver avuto un tratto comune nella loro intima personalità per essere riusciti a cogliere le attenzioni di mademoiselle Pélissier. Olympe Pélissier era una donna estremamente intelligente e raffinata, ricercatrice, nel gioco della vita, del sentimento di passione, forse questo il filo conduttore che legò i tre uomini e di cui è giunta a noi testimonianza storica.
Tornando a Norma, fu composta in Italia, in tre mesi nel 1830 durante il soggiorno di Bellini a Villa Passalacqua a Moltrasio sul lago di Como. La bellezza di quel luogo non può che predisporre l’animo alla creatività, la giovinezza e la genialità di Bellini fecero il resto e gli permisero di dare vita ad una musica le cui arie ancora oggi sono tra le più difficili da interpretare, richiedono una padronanza tecnica della voce sia del legato che nel fraseggio e non ultimo degli acuti richiesti, non facile da raggiungere senza aver ricevuto in dono, da madre natura, una voce bellissima, bella non è sufficiente.
Per queste ragioni Norma è considerata da tutti i soprani una prova di “coraggio”, solo la Callas e poche altre riuscirono a rendere a pieno l’intensità drammatica legata a questa figura.
La trama di Norma, opera in due atti, tratta dal libretto di Felice Romani, scrittore poeta e critico musicale , narra di una vicenda ai tempi dei Galli e del conflitto con i Romani.
La scelta del periodo storico per l’ambientazione è dettata dai canoni della moda di quel tempo, non rappresenta un valore aggiunto per la trama ed è questo a far sì che il messaggio di Norma possa essere attualizzato ancora oggi.
La musica è al servizio dei personaggi per indirizzarli verso un viaggio nella complessità dell’animo umano, dove per la prima volta nella storia della lirica le personalità degli attori non sono pennellate completamente buone o completamente cattive.
Nel dramma dei rapporti familiari ed istituzionali che le figure di Pollione, Norma, Aldagisa e Oroveso hanno tra loro è sempre il perdono a rimanere al centro del confronto, come un fuoco, una luce con la quale ognuno si deve confrontare.
Norma perdona Pollione per il tradimento alla promessa di fedeltà, nel momento in cui lo percepisce non più come una lesione alla sua dignità, perché l’amore parte sempre da una scelta personale e nessuno può in ciò ledere la stima di sé stessi, ma può avvenire, solo nella dimensione in cui lo permettiamo all’altro. Norma nel riconoscere questo, perdona se stessa dal senso di colpa per non aver rispettato la promessa dei voti sacri di castità ed espia attraverso il suo sacrificio, il suicidio, il giudizio di una colpa sociale.
Questo passaggio è estremamente delicato, Bellini offrì l’opportunità ai suoi contemporanei, di riflettere sulla variabile tempo e l’insieme dei valori sociali che condizionano il giudizio di colpa sociale e che spingono il genere umano verso comportamenti contrari alla sua natura intima.
Ciò che una volta veniva inteso deplorevole al punto da richiedere il sacrifico umano e l’ espiazione della colpa con il suicidio, un domani potrebbe forse non essere più necessario.
Pollione inizialmente non si riconosce nessuna colpa, perché ha una stima tale di sé da ritenersi migliore e da non riconoscersi nella posizione di aver ferito l’altra parte.
Raggiungerà la consapevolezza, del proprio pentimento nel momento in cui riconosce la superiorità morale di Norma.
Norma, nell’atto di rinunciare alla vendetta, fa sì che Pollione avverta la responsabilità delle proprie azioni e la rabbia iniziale di Norma, non più come un affronto alla sua dignità, al contrario, è il perdono di lei che lo spinge ad un cambiamento profondo.
Aldagisa, figura femminile antagonista di Norma nell’amore a Pollione è l’ inconsapevole miccia che dà via a questo conflitto di emozioni.
Aldagisa, perdona se stessa per aver amato Pollione ed aver infranto a sua volta gli stessi voti di Norma.
Il riconoscersi tra donne le permette di comprendere la debolezza dell’altro.
Aldagisa rimane sola con il suo amore e la consapevolezza che forse il sentimento di Pollione per lei fosse nato dalla spinta della giovinezza, ma non dal quel sentimento profondo che lega le anime in un rapporto di amore e odio.
Oroveso, capo dei Druidi e padre di Norma, rappresenta il perdono istituzionalizzato, quello sociale, nell’accettare il sacrifico della sua unica figlia e nello stesso tempo rappresenta il perdono, quello più privato ed intimo tra padre e figlia nel mantenere custodite le sue le ultime parole e il suo segreto.
Oroveso mette in salvo la vita dei figli nati da questa unione d’amor tra Pollione e Norma, ma condannati dal senso di colpa sociale.
Vi propongo l’ascolto di un breve pezzo da abbinare con la lettura del testo sovrascritto con un video che permette anche a chi non è solito alla comprensione della lirica di poterlo seguire.
In mia man al fin tu sei: la scena è una delle più intense, si svolge alla fine del secondo atto.
Pollione è stato scoperto nel suo tentativo di rapire Aldagisa dal tempio, ora è solo con Norma, la quale, con la scusa di volerlo interrogare, ha allontanato i guerrieri e suo padre il druido Oroveso.
Il dialogo tra Norma e Pollione si fa accesso ed intimo, in questa fase passione, amore, odio perdono, tutte le riflessioni fin qui fatte, sono presenti.
Vicenzo Bellini, Norma – In mia man alfin tu sei – Maria Callas, Norma – Mario Filippeschi, Pollione
Se l’opera lirica è riuscita a regalarci emozioni intense e spazi di riflessione profondi, altrettanto è in grado di farlo il tango con una lirica poetica ma completamente diversa, perché arricchita di quella leggerezza che pur non esclude la profondità.
Se qualcuno volesse divertirsi a scrivere la parola tango e perdono su Google, rimarebbe attonito dalla valanga di pagine che gli si aprono.
Ho scelto un tango dove la ricerca della musicalità non fosse da meno dell’intensità delle parole della letra .
Non è possibile mettere a confronto due generi musicali talmente diversi e complessi nelle loro radici e memorie storiche, tanto da rendere quasi impossibile un linguaggio trasversale, tra lirica e tango, se non nella dimensione del rispettoso ascolto dell’ elemento musicale.
Tormenta è un tango scritto e musicato da Enrique Santos Discépolo, definito il poeta del tango, un filosofo della vita, figura unica nel panorama della cultura argentina .
Enrique Santos Discépolo nacque in una famiglia di artisti il 27 marzo 1901.
Perse i genitori da piccolo e suo fratello maggiore Armando lo avviò sulla strada dell’arte avendo intuito le sue eclettiche potenzialità: fu compositore, poeta, scrittore, drammaturgo, attore e filosofo.
I suoi testi parlano della vita delle esperienze umane ed è sempre una rilettura della realtà in poesia. La sua forte sensibilità lo portò ad essere sempre un uomo estremamente attento alle tematiche sociali, denunciando la povertà e le disuguaglianze del suo paese. Ne è una testimonianza il video che condivido con voi dove parla con Gardel poco prima di eseguire uno dei suoi brani, Yira Yira.
Nel 1918 a soli 17 anni scrisse le sue prime opere teatrali : El señor cura, El hombre solo, Día Feriado, da lì in poi la sua carriera artistica si fermò solo con la sua morte.
Ebbe un infanzia sofferta, dura, privato del calore di entrambi i genitori, durante la quale subì, umiliazioni da parte di familiari stretti che non erano in grado di accogliere una sensibilità come la sua e riversò nella musica e nelle parole quel sentimento angoscioso che i suoi testi di tango esprimono.
A Montevideo nel 1926 visse il suo primo fallimento come compositore, scrisse un testo marcatamente di denuncia sociale “Qué vachaché”, non fu capito, ma quel tango segnò la sua firma ed unicità, un vero poeta. Rinunciò più volte a lavori che lo avrebbero arricchito per non scendere a compromessi con il suo sentire ed il rispetto verso se stesso e la sua arte.
La sua composizione come paroliere conta non più di una trentina di testi, ma la qualità delle opere composte rivaleggia con i più grandi poeti contemporanei.
Quando compose il testo del tango che ho proposto nel 1939, Tormenta (Tempesta) , implorando Dio per un perdono verso l’umanità che non comprendeva in un impeto di disperazione scrisse:
“Cosa ho imparato dalla tua mano non va bene per vivere?
Sento che la mia fede sta tremando che le persone cattive vivono, Dio, meglio di me. “
Parole che ancora oggi ci fanno tremare per l’attualità del loro significato.
Il perdono dov’è in questa lirica ?
Il perdono è tutto nell’abbraccio del tango, Tormenta nella sua musica intensa, vibrante con il suono del piano e dei violini, ci accompagna mentre balliamo nella ricerca della connessione e ci trasmette, quel calore necessario per affrontare la tempesta della vita.
Amo credere che Enrique Santos Discépolo, ci regali un filo di speranza, certo che il fiore della vita è lì ad attenderlo, oltre la notte buia del dolore, lo stesso fiore che Norma e Apollonio nel perdonarsi vicendevolmente hanno trovato.
Vi propongo l’arrangiamento dell’ orchestra di Di Sarli con la voce intensa e piena dal timbro tenorile di Mario Pomar e vi aspetto alla prossima video intervista, ritratti, con il soprano Lucia Conte, con lei proseguiremmo la nostra riflessione sul perdono.
¡Aullando entre relámpagos, perdido en la tormenta de mi noche interminable, ¡Dios! busco tu nombre… No quiero que tu rayo me enceguezca entre el horror, porque preciso luz para seguir… ¿Lo que aprendí de tu mano no sirve para vivir? Yo siento que mi fe se tambalea, que la gente mala, vive ¡Dios! mejor que yo…
Si la vida es el infierno y el honrao vive entre lágrimas, ¿cuál es el bien… del que lucha en nombre tuyo, limpio, puro?… ¿para qué?…
Si hoy la infamia da el sendero y el amor mata en tu nombre, ¡Dios!, lo que has besao… El seguirte es dar ventaja y el amarte sucumbir al mal.
No quiero abandonarte, yo, demuestra una vez sola que el traidor no vive impune, ¡Dios! para besarte…
Enséñame una flor que haya nacido el esfuerzo de seguirte, ¡Dios! Para no odiar al mundo que me desprecia, porque no aprendo a robar… Y entonces de rodillas, hecho sangre en los guijarros moriré con vos, ¡feliz, Señor!
Traduzione
Urlando in mezzo ai lampi, perso nella tempesta della mia notte interminabile, Dio, cerco il tuo nome.
Non voglio che il tuo raggio mi accechi nell’orrore, perché ho bisogno di luce per continuare….
Quello che ho imparato da te non serve per vivere? Sento che la mia fede traballa, che la gente malvagia vive, Dio, meglio di me. Se la vita è l’inferno e l’onesto vive in lacrime, qual è il bene… di chi lotta nel tuo nome, pulito, puro? … Per che cosa?
Se oggi l’infamia paga e l’amore uccide nel tuo nome, Dio, quello che hai baciato… ed il seguirti è dar vantaggio e l’amarti soccombere al male.
Non voglio abbandonarti, io, dimostra una sola volta che il traditore non vive impunito, Dio, per baciarti… indicami un fiore che sia nato dallo sforzo di seguirti, Dio, per non odiare il mondo che mi disprezza, perché non imparo a rubare… E allora fatte sanguinare le ginocchia sui sassi, morirò con te, felice, Signore!
Enirique Santos Discépolo , Tormenta – Carlos di Sarli, Mario Polar
Carlos Gardel e Enrique Santos Discépolo.
FONTI:
Paul Recoeur; Ricordare, dimenticare, perdonare. L’ enigma del passato (2004)
Giovanni Jervis; Il concetto di colpa, (1996) – da filosofia.rai.it, 4 Aprile 1996
Paolo Cecchi; Temi letterari e individuazione melodrammatica in Norma di Vicenzo Bellini, (1997)
Mónica Fernández ; Enrique Santos Discépolo: una mezcla milafrosa de poesìa y filosofìa.
Enrique Santos Discépolo: A miraculous blend of poetry and philosophy, (2013)
I giorni si susseguivano, uno accanto all’altro in una ripetitività come solo lo scorrere del tempo può generare: l’attesa del giorno nuovo.
Elena, si rifugiava nel tango, rappresentava una bolla nella sua quotidianità esistenziale che le permetteva di fermare il tempo.
L’attrazione ed i giochi di sguardi precedevano l’euforia pre mirada; è sottile il confine tra complicità di coppia e amore per il tango.
Ridacchiava ed ammirava con un velo di sarcasmo quelle tanguere che pur non essendo più giovani, si trasformavano nelle braccia del partner al punto da non poter più dare loro un’età.
Quel tipo di sicurezza derivava solo ed unicamente dalla femminilità di ogni donna porta dentro di sé.
Talune ne avevano talmente in abbondanza che neppure si rendevano conto dell’effetto che provocavano; queste rare ballerine, rimanevano inconsapevoli del loro potenziale. Spesso ballavano al di sotto delle loro capacità, non osando mirare o contraccambiare lo sguardo con coloro che definivano bravi. La scelta di rimanere nella loro zona confort, le proteggeva dalla delusione di provarci.
Che spreco, si disse tra sé e sé, l’autostima è fondamentale.
Un sorriso amaro le increspò il labbro pensando a Francesca, non le mancava l’autostima, eppure, anche lei, non voleva vedere la vera natura di Marco.
Marco è un bluff!
Il giorno della resa dei conti si stava avvicinando sempre di più.
Lo aveva capito da come ultimamente ballavano in milonga e presto nel gioco delle coppie, si sarebbero ritrovati a rimescolare le carte … niente era destinato a rimanere come sembrava.
L’ estate con le sue lunghe notti, la carezza dell’aria fresca, l’inganno delle stelle predisponevano gli animi ad incontri talvolta fugaci, raramente autentici, ma quando questo accadeva faceva tremare le fondamenta anche della coppia apparentemente più stabile.
Non è vero che il tango inganna, eppure porta a confondere ciò che non si vuol riconoscere.
Il bip del suo cellulare l’avviso dei messaggi in arrivo su WhatsApp.
Sorrise, si divertiva a tenere vivo l’interesse di più uomini, ognuno non collegato all’altro, in modo tale che le possibilità che si incontrassero o condividessero amicizie o passioni comuni era praticamente nullo.
Aveva una preferenza accentuata per quelli fuori regione, le permetteva di vederli con meno regolarità, riuscendo a mantenere vivo la curiosità verso di loro.
Il guaio vero era che pochi riuscivano ad intrigarla con una conversazione ricca al punto tale da farle scattare il desiderio di approfondire la conoscenza.
Ahimè quello era il suo limite grande… al terzo incontro quando le cose stavano prendendo la piega giusta e tra una risata profonda e dell’allegra euforia, regalo di un buon bicchiere di Amarone, accadeva quasi sempre una caduta di stile, talmente inappropriata da rivelare tutta l’arroganza maschile, così ben camuffata da un accentuato narcisismo, al punto che si chiedeva se non fosse meglio essere un po’oca e scopare di più.
Ma ecco che il retaggio culturale, invece di aiutarla sostenendola a ragion veduta, di non perdere una , che erano le ultime cartucce, fregatene e concludi la serata, tutte le volte le faceva l’auto sgambetto…
Si ritrovava a girare le chiavi nella toppa di casa, tutta sola.
Ridendo si toglieva le scarpe e gettandosi nel letto quasi vestita, ripensava ancora a quella prima volta dopo la sua vedovanza, aveva bevuto talmente tanto che a forza di farlo ridere, gli era diventato piccolo e non avevano concluso più niente.
Si erano addormentati abbracciati.
Si guardò allo specchio con uno sguardo nuovo e si chiese, se anche lei non facesse parte di quelle poverine che fino a pochi minuti prima aveva scanzonato.
Si guardò allo specchio, aveva poco seno per attizzare, la vita sottile e le gambe lunghe, le garantivano alla sua età una figura ancora armoniosa e slanciata.
Non si stupiva degli sguardi accesi nei suoi confronti, quello di cui si meravigliava, ora ripensandoci con calma, era che benché riconoscesse la sua passionalità femminile, al punto tale da comprendere di desiderare un uomo, poi di fatto non riusciva ad instaurare una comunicazione che perdurasse oltre il periodo canonico dei due mesi. Come se ci fosse una tacita regola non scritta tra il “gentil sesso maschile”, che allungare il periodo dei due mesi, avrebbe provocato una paralisi fulminante alle articolazioni inferiori ed il cervello sarebbe andato in pappa. Addirittura sembrava, che l’emotività affettiva, sprigionata dall’intimità fisica di due persone, non dovesse superare lo strato protettivo intimo dell’anima, altrimenti era la fine.
Una volta attivato il processo dell’innamoramento, il rischio di creare una dipendenza emozionale era talmente alto, tanto quanto la persona difronte a te risplendeva di sincero affetto.
Gira che ti rigira il tango visto da questa prospettiva diventava catalizzatore di energie cariche di erotismo, infiammando le fantasie di taluni e portando in milonga una brezza di euforica confusione.
Ma veramente il tango è in grado di allontanarti da ciò che ti è più caro?
La sua mente, come un filtro della macchina del caffè, tralasciava solo ciò ritenuto corretto: un insieme di valori e convinzioni, il resto, rimaneva ben nascosto.
Il persistente bip del cellulare le impose l’attenzione su dinamiche familiari più complesse.
Uscì dal bagno guardando l’orologio, lo sguardo oltrepassò quel disordine distribuito in modo uniforme, i vestiti indossati la sera prima spiegazzati adagiati un po’ sulla poltroncina e un po’ a terra.
Le scarpe invece non si ricordava che fine avessero fatto, ecco, una si intravedeva da sotto il letto, ma l’altra? Percorse la stanza senza trovarla fino all’ angolo della scrivania dove una catasta di libri, ogni giorno si alzava sempre di più, storcendosi come la torre di Pisa.
La situazione sarebbe stata recuperabile, se avesse perso meno tempo dietro ai suoi pensieri, avesse fatto andare le mani invece che rincorrere i ricordi.
L’occhio scanzonato e di sufficienza con i quali i suoi figli erano soliti a commentare quello stato di cose, la catapultò nello sconforto di sentirsi una madre inadeguata.
L’ansia fece capolino, inducendola a muoversi nel più breve tempo possibile, almeno le lenzuola e far cambiare l’aria, “la stanza con i letti in ordine ha subito un altro aspetto” era solita a dirle su nonna.
Nel tirare le lenzuola, sentì le mani rugose di sua madre, accarezzavano le sue, nella semplicità di quel gesto, rivide per un breve attimo la stanza di sua madre come la sua, anche lei da giovane donna osservava e giudicava.
Vedova, non divorziata, un’eccezione alla sua età e tra le sue amiche si riteneva fortunata, aveva potuto preservarne il profumo dei fiori di arancio, e dalla distruzione la terra calpestata, giorno dopo giorno, aveva riassorbito la perdita del dolore. I ragazzi un faro nelle notti più buie.
Matteo rientrava da una vacanza con gli amici in campeggio e Stephy da Ferrara. L’ affitto del monolocale la costringeva a continue piccole economie, aveva rinunciato all’auto pur di vivere in uno spazio tutto suo.
Si era trasferita da un anno a Ferrara , per completare il dottorato in poliambulanza nel reparto pediatrico, ultimo arduo step, fatto di sacrifici e rinunce, senza quelle tranquillità sul futuro e l’aiuto economico dei genitori che la sua generazione aveva goduto.
Stephy sarebbe arrivata in stazione per le 13:00 realizzò tutto di colpo.
La sua spinta affannosa nel coprire con la mente tutte le mancanze sottolineate dai suoi ragazzi le si rivoltò contro in una smania di compiacere; cercava di recuperare una metodicità che non le apparteneva.
I cinque minuti necessari per finire un lavoro, diventavano dieci di ritardo su quello successivo e il rincorrersi delle lancette l’avvisavano del limite che si era data.
Alle 12:30 avrebbe dovuto trovarsi in macchina se voleva assolutamente arrivare puntuale.
Nell’azionare la macchina, l’orologio sul cruscotto segnava le 12:40.
Traffico, il cellulare iniziò a squillare. “Pronto, ciao Mamma”
“È arrivata?”
“Sto andando a prenderla in stazione, ti chiamiamo noi..”
“Si, va bene , aspetto. Baci”
Doveva riconoscere che sua madre aveva due grandi capacità: la prima, chiamarla sempre nel momento di maggiore tensione tra la partenza o l’arrivo. La seconda capacità mantenere una serena accondiscendenza sugli imprevisti della vita, ed un innegabile tocco contorto nel farti sentire in colpa ed inadeguata, tanto quanto l’inconsapevolezza di questo suo atteggiamento, aveva finito di minare il loro rapporto, al punto che un meccanismo di dipendenza affettiva, giocato sulla sudditanza dei ruoli aveva garantito alcune certezze a sua madre a discapito della sua sicurezza.
Chi con forza affermava che l’amore materno è sempre e solo protettivo e benevolo, lo guardava con perplessità, non esprimeva una parola, in coscienza sapeva che sarebbe andata incontro ad una conversazione sterile.
Già tanto era comprenderlo da sola, per non riproporlo, nel fagocitante gioco al massacro nella comunicazione familiare con i suoi figli, impossibile metterlo in discussione con gli estranei.
La mente e il cuore possono parlarsi? Si chiedeva Elena aspettando sua figlia.
“Mamma, ciao, come stai?”
Stephy era sciupata, le piangeva il cuore quando la vedeva spenta. A ventisette anni dovresti sorridere sempre.
“Sei magra,” nel dirlo Elena si morse il labbro.
“Guarda non iniziare, sono appena salita ma faccio presto a scendere e chiedere a Laura se posso stare da lei.”
“Ma, no cosa dici è che sono così contenta di vederti, ho già tutto pronto a casa”.
“Matteo dovrebbe arrivare a momenti. Perché non lo chiami? Cerchiamo di capire tra quanto arriva”.
Stefania, la guardò di sott’occhi prese la sigaretta se l’accese.
“Posso? Ti dà fastidio?”
“ Ma no, apri il finestrino. Il viaggio dura poco, ma dovevi proprio fumare ora?”
“Se ti dà fastidio spengo” nel dirlo schiacciò la sigaretta.
Ogni volta che la vedeva, le si stringeva lo stomaco, solo il suono della sua voce lo percepiva come aggressivo, la mortificava, ogni parola implicava un giudizio mascherato di disapprovazione nei suoi confronti. Si girò ad osservarla, le mani stringevano con forza il volante e lo sguardo fisso sulla strada segnavano un volto stanco almeno quanto il suo. Ma che cazzo aveva fatto? Si domandò.
Elena non capiva, ma perché aveva dovuto sottolineare in quel momento il fatto se fumava o no in macchina sua? Che cosa voleva dimostrare? Non poteva accettare che sua figlia vivesse la sua vita come voleva? Doveva per forza mascherare le sue domande. Eppure ci doveva essere un altro modo per comprendersi, la felicità ha senso solo nel momento che la condividevano, ma tra loro non c’era una vera condivisione.
Le emozioni sovrastavano la sua capacità di ascolto, un ascolto dell’altro che il tango ben le aveva insegnato, lasciarsi andare nel respiro.
Cos’è fare tango? Non è forse tango parlare senza parole?
Il silenzio, non è necessariamente il vuoto, crea chiarezza e nel percepire l’aggressiva esclusione dell’altro, comprendi il confine protettivo di te stesso.
Qualunque cosa lei avesse fatto in passato per creare una protezione simile in sua figlia, non avrebbe rinnegato la sua responsabilità ma la capacità di andare oltre comprendere e lasciare andare era qualcosa che poteva insegnare a se stessa e a lei non con le parole ma solo con l’esempio.
Vi sono degli attimi nella vita di ognuno di noi dove smettiamo di diventare figli per evolverci in genitori ed è quando ci riconosciamo fragili.
Mi voltai e le sorrisi.
“Possiamo riprovare? “
“Non lo so mamma, credimi lo vorrei tanto, ma tu sei perpetuamente lo schema di te stessa”.
Entrammo in casa e qualcosa di veramente insolito ci attendeva, Matteo aveva già buttato la pasta e la stava scolando.
Ci guardò entrambe: “Giusto in tempo, belle donne sedetevi a tavola che ora vi servo subito.”
Stehpy , gli andò incontro un bacio veloce sulla guancia “Stai bene fratellone, le vacanze ti hanno donato”.
Mi guardai intorno, mi morsi il labbro, la cucina non era proprio come l’avevo lasciata ed il mio arrosto era rimasto in forno con le patate.
Mi azzardai a dire. “Avevo già preparato tutto.” Mi bloccai, improvvisazione, contaminazione e inclusione …. forse significava mettersi a tavola, ridere, bere e gustarsi la pasta anche se fosse stata scotta e soprattutto esclusa dal mio programma di dieta.
“Ma è mille volte meglio venir servita, l’arrosto lo teniamo per questa sera..”
“Io non ci sono, sono a fare un ape cena in centro con i miei amici” Matteo, mi guardò aspettandosi da me la solita replica … ma come sei appena tornato a casa ed esci nuovamente…
Stefania aggiunse “Sono a cena a casa dei genitori di Manu”.
“Direi che ora mangiamo la pasta prima che si raffreddi e all’arrosto ci pensiamo domani “.
La carbonara veniva proprio bene a Matteo, si sentiva la cucina con il cuore, vederli seduti accanto a me, anche solo per quei dieci minuti tanto era la fretta che avevano di mangiare velocemente per poi ognuno ritirarsi nelle proprie stanze.
No, non avrei lasciato quella voce malinconica disturbante, lasciarmi reinterpretare la realtà del presente con le lenti dell’amarezza. No, non ci sto, amo me stessa, amo la mia vita e amo i miei figli perché abbiano la loro.
Il cellulare suonò, riconobbi la suoneria di Francesca.
Risposi: “Cara ho i ragazzi a pranzo ci sentiamo dopo”.
“Un attimo solo, ti ho inviato diversi messaggi, stiamo prenotando per stasera andiamo tutti in Villa Balestri, Milonga con ape cena sei dei nostri?”
Sorrisi, talvolta le cose si incastrano nel modo più imprevedibile, ripensando a come tutto può cambiare in un attimo, la percezione della vita, l’intensità della morte, l’accettazione folle di essere innamorati ci vuole un atto di armoniosa fede verso noi stessi.
Tra le opere che maggiormente hanno un richiamo artistico internazionale, al punto tale che tutti, ma dico tutti, sanno riconoscere l’aria cantata alle prime note, vi è Carmen.
Carmen, di Georges Bizet, è un’opera tragica in quattro atti, liberamente tratto dal romanzo Carmen di Prosper Mérimée, andò in scena per la prima volta all’ Opéra -Comique di Parigi, il 3 Marzo 1875.
Siamo talmente catturati dalla sua musicalità e dalla trama rocambolesca, che tutta la nostra curiosità di contemporanei la spendiamo per documentarci sull’opera e conosciamo ben poco del compositore stesso.
La profondità e la complessità psicologica dei personaggi, – Carmen la zingara voce da mezzosoprano, don José il sergente voce da tenore, amante di Carmen, Escamillo torero voce da baritono, corteggiatore di Carmen e rivale di don José, Micaela innamorata di don José voce da soprano e sua amica fedele – hanno fatto di quest’opera un vero capolavoro tanto innovativo nell’ intreccio della storia da apparire scandaloso. Non vi sono figure di riferimento positive o negative, hanno tutti uno spessore umano reale, luce e ombra, come nella vita.
Carmen che canta l’aria di Habanera, il cui testo è scritto direttamente da Bizet, suscita in tutti noi, ancora oggi, la spontanea seduzione della fantasia, della sensualità mascherata dall’ illusione d’amore. Attraverso la rappresentazione scenica, siamo spinti emotivamente a riflessioni personali sul nostro stato attuale di vita sentimentale – immaginate l’effetto che deve aver fatto su un pubblico di fine ‘800 -. Gli spettatori alla “prima” rimasero ammutoliti al punto da ritenere l’opera sovversiva all’ordine sociale.
Bizet, così come la sua Carmen, non si aspettava un finale tragico ed imprevedibile che il destino aveva in serbo per lui, beffandolo della soddisfazione di essere riconosciuto un grande tra i grandi in vita. Morì all’età di 37 anni, il 3 Giugno 1875, tre mesi dalla rappresentazione della prima, presumibilmente per motivi di salute, era cagionevole e soffriva di “angina pectoris”, dolore al petto causati forse da un’ischemia.
Un arresto cardiaco improvviso, sicuramente causato da più motivi, non ultimo l’insuccesso di una vita artistica dalle alte aspettative, prognosticatogli ancora da piccolo per il suo talento geniale verso la musica e il pianoforte.
Bizet nacque in una famiglia di musicisti, la madre lo seguì nello studio del piano ed all’età di dieci anni venne ammesso al conservatorio.
Uno studio rigoroso lo portò presto a vincere delle borse di studio, fino a conseguire il premio più ambito il Prix de Rome all’età di vent’anni, garantendogli un soggiorno di cinque anni in Italia, con il compito di inviare una composizione musicale all’Accademia francese una volta all’anno .
Il periodo in Italia fu il più felice e sereno della sua breve vita.
E’ presumibile pensare che nei suoi viaggi tra Roma, Napoli e Firenze si portò via dei ricordi, delle musiche sentite per strada, frammenti di quadri di vita che ha sintetizzato magistralmente nella Carmen, trasmettendo quella vitalità complessa fatta di contraddizioni che la vita stessa è.
“Un magnifico baccano da circo” venne definito dagli orchestrali che trovarono difficoltoso seguire questa nuova partitura.
La trama della Carmen è complessa – un dramma – che finisce con il femmicidio, – di una donna la cui unica colpa era stata quella di scegliere il proprio destino e di rimanere libera a qualsiasi costo. Questo non era sicuramente il soggetto giusto per una teatro tradizionale ed famigliare, come quello della Opéra -Comique di Parigi, tanto è che venne classificata sotto il genere opera-comique.
La prima venne accolta freddamente e questo certamente non sostenne il povero Bizet, il quale già usciva provato da un periodo depressivo, a conseguenza della salute cagionevole, dell’affettività familiare difficile con la moglie e il mancato riconoscimento dei suoi lavori da compositore che lo costringevano a lavori alternativi come quello di dare lezione d’insegnamento musicale.
Posso solo immaginare le insicurezze profonde e l’ amarezza che tutto possa avergli causato. La musica, comporre, diveniva così il suo rifugio privato, ed ecco che Carmen è la sua voce al femminile che esprime la disillusione di una passionalità fatta di carne e sangue che non trova riconoscimento continuativo, perché l’amore è un sentimento ribelle.
L’amore è un uccello ribelle
che nessuno può imprigionare
Ed è proprio invano che chiamiamolo
Se per lui è comodo di rifiutare
Niente lo muove, né minacce né preghiere
Uno parla bene, l’altro rimane zitto
Ed io preferisco quest’altro
Non mi dice niente ma mi piace
L’amore! L’amore! L’amore! L’amor
L’euforica vitalità musicale che non lascia spazi vuoti e tiene il ritmo serrato si contrappone al dramma della povertà e alla crudezza delle scene di “vita reale”, in un forte contrasto che crea scandalo come solo un’altra opera era stata capace di fare la Traviata.
Carmen, seduce con la sua femminile presenza scenica, è padrona di sé stessa e non si lascia manipolare dalle debolezze dei caratteri maschili, non accettando alcun tipo di compromesso sfida la fatalità drammatica del suo destino, svelatole dalla lettura dei tarocchi. Lei è la padrona del suo corpo, del suo desiderio e della sua vita, ma nello stesso tempo è anche la personificazione di quell’amore bellicoso, tortuoso, che ti spinge nei baratri bui della tua personalità, forzandoti ad osservare cosa c’è oltre il confine dell’amore inteso come la ricerca della propria metà che completa la tua anima.
Nietzsche ha da poco trent’anni quando l’ascolta per la prima volta, ne rimane catturato. Esultò di ammirazione definendola l’opera perfetta il cui messaggio è quello di interrogarsi sull’amore conflittuale tra i sessi, ed arriva ad affermare che Carmen:
“E’ un esercizio di seduzione, irresistibile, satanico, ironico provocante. È così che gli antichi immaginavano Eros. Io non conosco nulla che si avvicini da cantare in Italiano, no in tedesco”.
Con sfacciata presunzione mi permetto di evidenziare come Nietzsche non ebbe l’opportunità di ascoltare certi tanghi o milonghe dove l’esercizio di seduzione è ”irresistibile, satanico, ironico e provocante” , aggettivi perfetti con il quale descrivere il magico connubio tra musica e poesia tanguera, una ricerca filosofica del sentimento umano tanto intenso quanto quello espresso nella lirica.
George Bizet prese ispirazione per la composizione della Habanera, da Sebastian de Iaradin con il brano “El Arreglito“, ne cambia l’armonia e diventa un capolavoro assoluto frutto d’ispirazione per altri brani musicali.
La sonorità di “Oh Sole mio“, di cui vi propongo l’ascolto musicale di Tito Schipa, riconosciuto come il primo tenore del Tango, ne è un esempio, ma non l’unico, anche per la cultura tanguera un filo rosso lega Habanera di Bizet alla milonga “Se dice di me”.
Doveroso è l’omaggio all’ interpretazione cantata da Tita Merello.
Non sono solo, il testo e la musica frizzante della milonga a creare questo collegamento con Habanera, bensì la struttura psicologica del personaggio femminile interpretato da Tita Merello nel tango simboleggia la stessa della Carmen.
La milonga ha origini legate alla musicalità africana che sono ampiamente esplicitate in un bellissimo saggio scritto dalla professoressa Lisa Avanzi, la quale ha reso usufruibile il testo tramite il portale “socialtango” in Facebook.
In questo saggio, la Calenda, viene descritta come una danza d’amore afro – americana, di cui si ha ha la prima testimonianza dai documenti scritti nel 1805 da parte di un ufficiale inglese Marcus Rainsford, che la vide durante un suo viaggio ad Haiti. Il percorso dettagliato dell’evoluzione di questa danza descritto da Lisa Avanzi, evidenzia come sia arrivata a Cuba in un processo di contaminazione nato dagli scambi commerciali del tabacco e dello zucchero. La musica e la danza, così come il cibo e la lingua parlata, sono elementi di evoluzione ed integrazione sociale.
La migrazione di conoscenze crea contaminazione e dà vita ad ispirazioni di danze nuove che, tra Santo Domingo, Cuba, Argentina ed Uruguay, viene definita “controdanza”.
Gli schiavi africani nell’adattarsi al contesto sociale di convivenza con i bianchi e i loro usi, modificano la loro espressione comunicativa nel ballo.
Alcune movenze diventano sessualmente meno esplicite e viene introdotto il ballo di coppia con una forma più leggibile alla cultura europea; ottenendo in questo modo, il permesso di esibirsi alle feste popolari.
Dal 1840 Walzer, Polca e Mazurka sono ballati ovunque.
Questa volta sono i “negri” che si appropriano delle movenze adattandole ai loro ritmi e dando vita al filone della musica e della danza latino americana: rumba, samba, maxixe e tango.
La danza Habanera, secondo lo studio musicologo cubano Emilio Grenet è un’evoluzione della “controdanza”, divenuta espressione della coppia che balla unita.
Non si sa con precisione quando arrivi l’Habanera nell’area di Rio de la Plata, gli storici collocano il periodo introno al 1860.
Probabilmente si diffuse attraverso due percorsi diversi, uno con i marinai nelle classi popolari, adottando la versione più spinta, e un altro attraverso le classi agiate nei teatri, adottandone una forma più elegante e sobria per le sale da ballo.
Il ritmo del tango africano dell’ Habanera portava con sé il desiderio di libertà dalle costrizioni sociali e morali dell’epoca vittoriana.
Se Habanera ha accesso la scintilla d’ispirazione a Bizet nel 1875, niente esclude che attraverso il teatro Colon e la rappresentazione della Carmen, la sua forza passionale non abbia ispirato le più belle milonghe dei nostri tempi.
La musica è quella forma di comunicazione trasversale che ci aiuta comprendere chi siamo e dove vogliamo andare.
L’amore disperato, un nome ed un aggettivo che, accoppiati, innescano in noi immagini, sensazioni e ricordi.
Chi, nella propria vita, non ha provato almeno una volta l’esperienza di un amore disperato. Ogni epoca ha i suoi riferimenti. Storie vere ricordate da testimonianze di vita: poesie, canzoni o film, tutte forme espressive di una riflessione intima, messa in condivisione per crescere e maturare nella conoscenza dell’essere umano.
Amo questa parola: “essere umano”, nel dirlo mi sento libera di non dover usare, un maschile, ma neppure un femminile.
Se immagino questo concetto di “ essere umano” come la luce con la quale mi illumino la strada della conoscenza, mi appresto a riflettere sull’interpretazione dell’amore disperato.
Due sono i testi che ho comparato, la cui bellezza è condivisibile e comprensibile sia per chi ama l’opera, ma anche per chi ama il tango:
L’aria “Oh mio Babbino” tratta da Gianni Schicchi di Giacomo Puccini e il tango “Gricel” scritta da José Maria Contursi.
Alcuni brevi cenni sono necessari per contestualizzare ed apprezzare a pieno le due proposte di confronto che ho scelto e l’attualità che, ancora oggi, conservano.
Le tematiche importanti della vita sono sempre le stesse, siamo noi attraverso la comprensione di un linguaggio emotivo, come direbbe Massimo Recalcati, a dare una risposta diversa.
Giacomo Puccini scrisse molto velocemente il Gianni Schicchi, nel 1917 a 59 anni, durante la stagione invernale nel suo Villino di caccia. È l’ultima opera della composizione del Trittico, ossia tre opere di un atto solo, in un’unica rappresentazione: Tabarro (primo atto), Suor Angelica (secondo atto) e Gianni Schicchi (terzo atto).
La storia di Gianni Schicchi è raccontata da Dante nell’Inferno, che lo colloca nel girone dei Falsari.
Siamo nella Firenze medievale, prospera e in pieno sviluppo economico, si iniziano a distinguere i “nuovi ricchi” dalle famiglie più importanti della città, le quali si ritrovano costrette a condividere aree di potere e di influenza con i nuovi arrivati.
La Famiglia Donati, di mercanti molto ricca e molto conosciuta, si trova d’improvviso a dover gestire una situazione delicata e quanto mai complessa. E’ morto il capofamiglia, Buoso Donati ed il testamento conferma la volontà del defunto di voler lasciare tutto in mano ad un convento di frati.
I parenti disperati si rivolgono a Gianni Schicchi per la sua fama di uomo astuto e capace di risolvere qualsiasi situazione incresciosa.
Gianni Schicchi è convocato e, si presenta per l’affetto della figlia Lauretta, che è innamorata del nipote del defunto, Rinuccio.
Ben presto, Gianni Schicchi si rende conto di essere in un vero nido di vipere, viene offeso e decide di lasciare la casa. Ma le parole e la disperazione che sente nel canto della sua Lauretta lo inducono ad indugiare.
“O mio Babbino caro,
Mi piace è bello, bello.
Vo’ andare in Porta Rossa
a comperar l’anello!
Si, si ci voglio andare!
E se l’amassi indarno
andrei sul Ponte Vecchio
ma per buttarmi in Arno
Mi struggo e mi tormento
Oh Dio, vorrei morir
Babbo pietà, pietà
Babbo, pietà, pietà”
La commozione e l’intensità del sentimento di Lauretta sono tali che Gianni Schicchi desiste e decide di aiutare la giovane coppia a realizzare con furbizia il loro sogno d’amore.
Gianni Schicchi si sostituisce allo zio morto, nel frattempo viene chiamato il notaio e dettate le volontà in base agli accordi presi precedentemente con gli eredi.
Grande è la sorpresa quando si arriva a designare il podere e la proprietà più fruttifera al suo più caro amico, e non ai nipoti. Tra beffa ed inganno Gianni Schicchi ne esce più ricco di prima. Tutta l’opera è giocata su melodie veloci e orecchiabili, per tenere il ritmo serrato della storia.
L’unica aria intensamente drammatica è quella cantata da Lauretta nella supplica che rivolge al padre, il dolore sarebbe tale da considerare il suicidio, un amore disperatamente intenso e legato ad una grande passione.
È lo stesso sentimento che viene espresso nel testo di Josè Maria Contursi verso la donna che ama appassionatamente ma non può avere, Gricel.
Quest’ultima però è una donna vera, quello che il testo descrive con parole poetiche ed una lirica musicalmente struggente, è la storia reale di un uomo e di una donna che hanno segnato la storia del Tango.
Josè Maria Contursi, figlio di un grande drammaturgo e compositore Pascual Contursi, era partito bene avendo ereditato le capacità artistiche del padre e ne fa presto buon uso raggiungendo una fama tale da essere conosciuto come “Duque de la Noche Portena”.
Giovane, alto, moro, modi gentili e parlantina poetica, aveva in mano un poker d’assi.
L’incontro con Gricel, era predestinato, la fatalità di un amicizia in comune porta una giovanissima Gricel di soli 14 anni a sperimentare l’emozione di un colpo di fulmine.
L’incontro avvenne presso la trasmissione radio Stentor, dove delle amiche di Gricel, Gory e Nelly Omar, hanno un’ audizione e lei le accompagna.
L’incontro è breve, ma tanto era bastato, perché si creasse quell’ alchimia tale che niente poteva più essere come prima.
Josè Maria Contursi, Katunga per gli amici, è già sposato e padre di una bambina a soli 23 anni.
Da questo loro primo incontro, trascorsero diversi anni prima che si rivedessero, sarà il destino a far incrociare nuovamente le loro strade.
La necessità di riprendersi da una lunga malattia porta Maria Josè Contursi a trascorrere un periodo di convalescenza in montagna, la scelta ricade proprio sul paesino dove viveva Susana Gricel Viganò.
L’amore ha un percorso tutto suo di farsi strada negli animi umani e stolto è lo sguardo dell’uomo se si sofferma a giudicare.
Maria Josè abbandona Gricel ritorna a casa da sua moglie e suo figlio, ma il pensiero di lei non lo abbandonerà mai.
La sofferenza di questo amore disperato, sarà la vena pulsante di tutto il suo repertorio artistico.
Le parole anche qui, come per “Oh mio babbino”, perdono d’ intensità se le leggiamo lontani dalla musica.
Il canto lirico, come il tango canción è una fusione di poesia in musica.
No debí pensar jamás en lograr tu corazón y sin embargo te busqué hasta que un día te encontré y con mis besos te aturdí sin importarme que eras buena… Tu ilusión fue de cristal, se rompió cuando partí pues nunca, nunca más volví… ¡Qué amarga fue tu pena!
“Non ho mai dovuto pensare a conquistare il tuo cuore, tuttavia ti ho cercata fino al giorno che ti ho trovata e con i miei baci, ti ho stordita senza che mi importasse della tua bontà.. la tua illusione fu di cristallo, si ruppe quando partì poiché mai, mai piùtornai…Quanto amaro fu il tuo dolore.”
Poche volte ho letto parole cosi coerenti e oneste nel riconoscere la responsabilità delle conseguenze di quando si ama con l’anima.
Buon ascolto di entrambe le arie.
Nella diversità che noterete, vi è una completezza che porta ad una comprensione profonda di noi stessi.
Gricel – letra di Maria Jósé Conturi, musica di Mariano Mores – canta Roberto Goyeneche – orchestra tipica Atilio Stampone
Gricel – Anibal Troilo, Francisco Fiorentino – traduzione Carla De Benedictis
Turandot, l’ultima opera di Puccini è il suo lavoro più emblematico. Ogni tassello della composizione, osservato a ritroso con le informazioni analizzate e ricostruite da più storici, ci porta a notare gli intrecci tra la vita artistica e personale del Maestro Giacomo Puccini, al punto tale, che il paragone di ciò che questo componimento artistico più di altri, ha rappresentato per il Maestro, è plausibile fino a poter proporre il seguente confronto con il tango : “Turandot è la tanda perfetta, la connessione armoniosa tra anima e respiro nella musica”.
Senza saperlo Puccini cercava questo e come ogni tanguero inizia la ricerca con sé stesso nella musicalità della vita, lui che era il maestro dei maestri, si perse nella selva oscura come accade a Dante.
Il respiro della Turandot lo aveva messo difronte alle sue contraddizioni di uomo e l’artista che era in lui, avvicinandosi alla fine, sia dell’opera che della sua vita, voleva redimersi tramite il perdono.
La consapevolezza di voler lasciare un messaggio ai posteri, un vero e proprio testamento dal duplice significato; uno musicale, di collegamento tra la chiusura di un’epoca, il melodramma lirico come fino ad allora era stato conosciuto, e l’apertura di una nuova musicalità. Un input per le generazioni future, il secondo messaggio era personale e non leggibile a tutti, ma nascosto tra la tessitura della partitura musicale e la trama del libretto; tale era la consapevolezza di tutto ciò nel Maestro da non riuscire a concludere Il finale.
L’opera era praticamente già ultimata nel Marzo del 1924, Puccini aveva portato a termine una delle arie più toccanti ed impegnative “tu che di gel sei cinta” intonata dalla serva Liù prima della sua morte.
Con il canto di addio Liù rappresenta l’archetipo dell’amore femminile, dolce ingenuo e puro, si sacrifica e rinuncia alla sua vita per Calaf. Il gesto segna profondamente l’animo interno di Turandot dando il via al suo cambiamento interiore. A questo punto manca solo il finale, ma in 8 mesi Puccini non riesce a completarlo, questa volta è il tempo in modo inesorabile a decidere per lui.
Puccini morì all’età di 65 anni, il 29 Novembre del 1924 in modo molto repentino e del tutto inaspettato.
A seguito di una diagnosi tumorale alla gola, da uomo d’azione e concreto quale era, intervenne tempestivamente facendosi operare a Bruxelles.
L’operazione riuscì, ma a pochi giorni di distanza un arresto cardiaco improvviso ne causò la morte.
Lasciava 22 fogliettini scritti in ospedale, pieni di cancellature e ripensamenti, un enigma che in questi anni ha messo alla prova diversi compositori, prima di tutti Franco Alfano al quale venne dato l’incarico di completare la partitura musicale del finale della Turandot con l’approvazione di Arturo Toscanini.
Sappiamo che prima di partire per Bruxelles, Puccini ebbe un incontro con Toscanini, testimone delle sue riflessioni ed esitazioni sull’opera, sentiva e temeva di non poterla concludere, tanto che avendo designato lui come direttore della prima, scherzando avevano concordato il finale in caso della sua morte: alla prima, dopo l’aria di Liù, l’opera si sarebbe conclusa e Toscanini avrebbe in teatro declamato il suo epitaffio.
Puccini si era reso conto analizzando la logica della trama di Turandot, seguendo lo sviluppo armonioso e consequenziale degli avvenimenti e la struttura psicologica dei personaggi, che il cambiamento di Turandot era troppo repentino e non era neppure sincero l’amore di Calaf. Questa disarmonia l’avvertiva anche nell’espressione musicale, tant’è che non era soddisfatto.
Entrò in crisi, lui attento osservatore del libretto e profondo conoscitore del mondo femminile. Le donne le aveva amate denunciando l’ipocrisia di una società borghese che non riconosceva a loro diritti e protezione concreta, (basti pensare alle trame di Butterfly, Manon Lescaut). Si rese così conto che lui stesso stava tradendo l’essenza stessa di Turandot.
Turandot è tradita da tutti e la sua crudele freddezza viene enfatizzata da superbia e distacco, sono strumenti che utilizza per proteggersi, creando un distacco dissociativo tra lei, il suo intimo e gli altri.
E’ tradita da suo padre che non le riconosce il diritto della scelta di non amare.
E’ tradita dal suo popolo che non la comprende, la teme, per la sua sete di morte.
E’ tradita da Calaf che l’ama nonostante veda nella sua bellezza la sua crudeltà e neppure davanti all’atto più vile che lei compie, togliere la vita ad un’altra donna, la serva Liù, rinuncia a lei.
Liù, una figura femminile, pennellata musicalmente con una delicatezza tale che per quanta tecnica e genialità Puccini avesse, può nascere solo da un sentimento riconosciuto e provato per un’altra donna in vita da lui stesso. Liù ama segretamente, profondamente e con consapevolezza Calaf, al punto tale di anteporre la felicità di lui alla sua, non rivelando il suo nome e nel silenzio accetta la sua morte.
E’ innegabile il legame tra il personaggio di Liù e la figura femminile di DoriaManfredi, la giovane cameriera accolta in casa Puccini ancora ragazzina, crescendo diventa una giovane donna, bella e affettuosamente legata alla famiglia che l’aveva accolta. Possiamo immaginar che provasse per Puccini, probabilmente un sentimento di puro innamoramento, tanto intenso quanto sincero. Non ci è dato di sapere se contraccambiato o no, sappiamo però che la gelosia e gli abusi psicologici di Elvira, la moglie di Puccini, portarono la giovinetta all’età di 20 anni al suicidio.
l legami tra Puccini, Elvira e Dora, sono estremamente sovrapponibili all’intreccio di emozioni che l’uccisione di Liù da parte di Turandot provoca, legando così i ruoli dei personaggi principali, Calaf, Turandot e Liù alla stessa vita reale di Puccini.
Nasce probabilmente da qui la grande difficoltà, tutta interiore con se stesso, di terminare l’opera.
Turandot / Elvira é tradita da Puccini, che nel mistero della favola enfatizzato dall’ambientazione orientale, imperniata da simboli esoterici, la rende prigioniera di se stessa: traumatizzata al punto tale di vivere come flash-back la violenza perpetuata nei confronti di una sua ava, come sua, non le concede l’indipendenza psicologica dalla figura maschile.
Turandot è prigioniera della volontà maschile, come lo era Elvira, al punto tale che per potersi liberare deve diventare crudele, la sua è una prigione dorata. Se Calaf vincesse la prova di svelare i tre enigmi diverrebbe il suo nuovo guardiano, da qui la lotta interna di Turandot.
Turandot non si salva da sola, attraverso un percorso di consapevolezza e di maturità dei sentimenti, affrontando le sue paure e comprendendo che il “qui e ora” non è il passato. L’ amore di Calaf, non è un amore liberatorio e maturo, manca il pentimento di Calaf, (manca il pentimento di Puccini), riconoscersi come uomo egoista che ha voluto nel proseguire la sua scelta d’amore o di ambizione, non tener conto delle conseguenze: il sacrifico della vita di Liù. Amare significa rischiare di essere rifiutati, è il passaggio di maturazione culturale e sociale necessario per riconoscere la vera indipendenza alla donna.
Rispettare il suorifiuto. Questo è il messaggio rivoluzionario che come ultimo omaggio, Puccini se avesse potuto avrebbe scritto, un’aria cantata da Calaf, dove dichiarava il suo pentimento e si assumeva la responsabilità della morte di Liù, come lui forse era riuscito a perdonarsi all’ultimo della tragedia di Doria, riconoscendo che attraverso il suo comportamento aveva spinto Elvira ad un amore ossessivo nei suoi confronti.
Questo anello mancante, che oggi come Rosaspina e come donna mi sento di ipotizzare, darebbe una lettura ed un’armonia diversa al finale, toglierebbe allo spettatore quella sensazione di “vissero felice e contenti”, espressa troppo velocemente e in modo troppo superficiale, tramite termini che non appartengono a Puccini.
La maturazione di Turandot, da gelida Principessa a compagna di vita, passa attraverso un profondo rinnovamento e nasce da due eventi importanti: il pentimento di Calaf (nell’opera manca) e il sacrifico di Liù.
Sono essi a far si che Turandot non tema più l’altro, non lo veda come una minaccia, riuscendo così a riconosce la sua fragilità umana. Questo è il passaggio spirituale e psicologico che Puccini intuisce nel letto di morte cerca di trascriverlo musicalmente in quei famosi 22 fogli.
Un messaggio rivoluzionario nell’essenza stessa, avrebbe colpito al cuore un concetto di mascolinità, dove l’uomo è visto positivamente se ama e dichiara la sua passione, senza tener conto delle conseguenze (tradimenti, delitti d’onore, matrimoni imposti, rapimenti e violenze sessuali nascoste), avrebbe portato a riflettere e far tremare una società come non lo era stato neppure con la figura di Pinkerton in Butterfly.
Da qui in poi la trama si ricollega perfettamente, però c’è un “ma”, l’ultimo mistero nel mistero, quello al quale non potremmo mai dare una risposta se non come atto di fede.
C’è un “ma”, che appare all’ ultimo istante, se l’amore è autentico, e questo lo è, tra Turandot e Calaf lo é, ha la forza di quel passaggio di crescita che nasce solo dal confronto su un piano di parità tra uomo e donna.
Lo sguardo che si rivolgono l’un con l’altra è autentico ed il bacio che si scambiano avviene su un piano di reciproco perdono, hanno mentito a se stessi, hanno mentito agli altri, ma ora possono avviarsi insieme uguali nella luce che porta serenità e pace.
Vi è un tango il cui testo poetico parla di un amore non riconosciuto perché offuscato dal divenire della vita, racconta nelle sue parole un amore reale, difficile ed intenso che vi racconterò la prossima volta.
Gricel
Vi anticipo il testo delle parole in Italiano perché incornicia perfettamente questo post e getta una ulteriore luce nel legame tra poeticità lirica e poeticità tanguera.
Non ho mai dovuto pensare a conquistare il tuo cuore tuttavia ti ho cercata fino al giorno che ti ho trovata e con i miei baci ti ho stordita senza che mi importasse della tua bontà… la tua illusione fu di cristallo, si ruppe quando partì poiché mai, mai più tornai… Quanto amaro fu il tuo dolore!
Non ti dimenticare di me, della tua Gricel, mi dicesti baciando quel Cristo ed oggi che vivo nella pazzia perché non ti ho dimenticato neanche ti ricordi di me… Gricel! Gricel!
Mi mancò dopo la tua voce ed il calore del tuo sguardo e come un pazzo ti ho cercata ma mai ti ho trovata ed in altri baci mi sono stordito… Tutta la mia vita è stata un inganno!
Che ne sarà, Gricel, di me? Si è la legge di Dio perché le sue colpe ha già pagato chi ti ha fatto tanto male.
Beniamino Gigli per il bel canto lirico italiano e Alberto Podestá come cantor del tango sono tra le voci più belle e rappresentative che abbiamo avuto.
Nelle leggere le biografie di entrambi, ricche di aneddoti, ho colto alcuni tratti in comune nel loro percorso di vita, al punto tale che mi è venuta spontanea l’idea di immaginarli, seduti al bar, come due nonni a parlare di nipoti. Sicuramente, si sarebbero piaciuti.
Tutti e due ricevettero alla nascita un grande dono: la voce.
I bambini crebbero in un ambiente amorevole, ma povero. Fu, la figura materna per entrambi a riconoscere il loro talento, e a nutrire una fiducia incondizionata nella loro voce, che li sorresse fin dai primi passi, rafforzandone l’autostima. Questo contribuì a formare nei ragazzi, un’immagine positiva di sé stessi, alla quale poter attingere per affrontare le avversità della vita.
A 18 anni Beniamino Gigli è solo a studiare a Roma, ha vinto la borsa di studio che gli permette di accedere alla accademia di Santa Cecilia, una delle più antiche istituzioni musicali al mondo. Non ha altri mezzi di sostentamento, sono anni difficili, il maestro Rosati, suo insegnante, lo stima e lo segue assiduamente, curandone minuziosamente la preparazione artistica riconoscendo, da subito, in lui grandi doti.
Nel 1905 si presenta, senza nessun appoggio, al concorso esordienti per giovani cantanti lirici di Parma, e su 105 concorrenti, lo vince. Le qualità naturali della sua voce, educata nello studio rigoroso di quegli anni, lo portano presto al massimo successo.
Alberto Podestá, non ebbe un percorso di studio musicale confrontabile con quello di Beniamino Gigli. Egli studiò solo fino alla prima media, ma non meno bella è la sua voce. Il primo esordio fu in tenera età, cantando le canzoni di Carlo Gardel in uno spettacolo radiofonico per l’infanzia “ Rayto del Sol “, al quale partecipò con il il suo insegnate, ottenendo, un tale successo da venir soprannominato dal pubblico “Gardelito.”
Anni dopo, lo sentì cantare per caso, il duo comico “Buono – Striano,” che intuendone le potenzialità, lo invitò ad andare a Buenos Aires e stabilirsi lì fisso, se avesse voluto tentare la fortuna e percorrere la strada del canto.
Ha solo 15 anni, quando conosce nel locale “Parabase” il musicista Migule Calò, che lo scrittura per la sua orchestra, ma sarà il passaggio contrattuale con Carlos di Sarli a 18 anni a dare una svolta alla sua carriera artistica. Da quel momento abbandonerà il nome di Alè, Alejandro Washington e per tutti sarà conosciuto come Alberto Podestá.
Il percorso artistico è segnato da continue collaborazioni con diverse orchestre, anche se con Carlo di Sarli manterrà sempre un canale preferenziale, intuisce che per crescere bisogna sperimentare e mettersi in gioco come Cantor e Compositor. Alberto Podestá non è uomo da tirarsi indietro di fronte a una sfida con sé stesso o con il destino.
Ascoltando i brani di queste due splendide voci, alternandole, anche se ad alcuni potrà sembrare una proposta inappropriata, non si può non riconoscere la continuità e l’unicità del loro suono, data da una rigorosa padronanza del respiro e dalla espressione del canto, decorata dalla perfetta dizione che nella propria lingua natale entrambi hanno.
La loro voce è sempre avanti, questa è la mia sensazione nell’ascoltare i loro brani, ed il suono delle parole chiaro al punto tale che tutti possono seguirne il testo.
Nella Masterclass del 55 che Gigli tenne a Vienna, davanti ad una domanda sulla dizione, postagli dalla platea di studenti, che pendono in totale ammirazione, Gigli non esita a rispondere.
La questione non dipende dalla buona volontà dello studente, né dalla capacità dell’insegnante, ma dalla conoscenza della lingua Italiana e la capacità di gestire le cinque vocali. Per pronunciare correttamente la parola “che io muoia” … dà tutto un altro pathos al canto. Ridare la centralità alla lingua italiana è un dono e un compito che per natura appartiene agli Italiani e fa dell’Italia la culla del bel canto.
La lezione, a cui mi riferisco e che invito ad ascoltare al link qui allegato, continua e si sviluppa intorno a tematiche ben note agli appassionati di canto come, il peso del respiro e quanto questo sia la pietra miliare su cui poi si studia e si imposta la voce. Trovare il proprio equilibrio è l ‘obiettivo di ogni cantante nel padroneggiare l’utilizzo o il non utilizzo del diaframma, diventa il fulcro attraverso il quale l’artista governa la sua voce.
Lo stesso accade anche per il cantor del tango, ma più in generale la respirazione ha un’importanza centrale persino per i tangueri.
Nella respirazione dell’abbraccio e il diaframma crea la connessione che i ballerini nell’ascolto dei loro corpi percepiscono. Il movimento iniziale della spinta nel tango, è così simile come mi immagino dover essere per il cantante l’emissione della prima nota. Il respiro è la porta che si apre.
La passionalità nel canto, quel calore per il quale le persone si animano di vita propria, superando la timidezza e la riservatezza personale, nasce da questo respiro profondo, che è sia tecnica, sia anima. Il respiro dà vita al canto, alla danza, genera spontaneamente un vortice di sinergia che coinvolge tutti, senza guardare distinzioni tra opera e tango.
Beniamino Gigli, per la lirica e Alberto Podestà, per il tango riuscivano a creare questa magia.
Magia che grazie all’incisione non è andata persa e che, tuttora, possiamo cogliere.
La sua fu una morte tragica ed improvvisa, un incidente in auto con la sua Lambda, perse il controllo, di ritorno da uno dei suoi viaggi.
Come era potuto accadere? Con questa domanda in mente ho iniziato a documentarmi.
Pochi anni prima nel 1926 il comune di Roma aveva deciso di acquistare il Teatro Costanzi, per poterne controllare la voce e trasformarlo in uno strumento di diffusione culturale del regime fascista. La scelta dell’acquisto, fu la soluzione finale per far stare zitta una donna; il cui impegno e risultati straordinari, come direttore artistico, avevano portato il Costanzi a divenire l’olimpo della lirica.
Emma Carelli, disturbava, non si allineava a nessuno stereotipo.
Da giovane soprano si caratterizzò fin dall’inizio nei ruoli drammatici, il dolore esposto della figura femminile rappresentava la forza interiore dei sentimenti di una donna e non più la fragilità angelica dell’eroina romantica. Si impose, a solo 22 anni, come riportato dalle cronache del tempo, per la sua intensa interpretazione nella parte di Margherita in Mefistofele, di Arrigo Boito. Ancora oggi è ricordata l’edizione del 1899, al teatro Costanzi, che la vide cantare con Enrico Caruso, definito il più grande tenore del mondo di cui quest’anno ricorrono i 100 anni dalla sua morte.
Era nata una nuova Divina nel panorama della lirica italiana.
Nella vita personale Emma Carelli, non si schierò mai apertamente con il movimento femminista, per lei la vera indipendenza nasceva dai fatti e non solo dalle manifestazioni in piazza. Coerente con le sue idee di indipendenza ella passò da prima donna nella lirica a diventare impresaria teatrale. Si individua un filo conduttore nel suo operato: non era donna da subire passivamente nessun torto. Si oppose con tutte le sue forze all’ ostruzionismo di Mascagni e a clima denigratorio portato avanti scientificamente dal regime fascista per delegittimare il suo operato e quindi toglierle il teatro.
Che violenza! Uno “Stai zitta” impostole dal regime, infangandone il nome e negandole un riconoscimento intellettuale, che avrebbe comportato come conseguenza ultima la cancellazione storica della sua memoria.
Renato Tomasino, nel suo libro “Le Divine”, dove presenta le biografie delle più importanti interpreti della musica lirica, ripercorrendone la storia dai suoi inizi ai giorni nostri, non la nomina tra le protagoniste del panorama artistico dei primi del 900.
Maschilismo intellettuale?
In questi giorni Michela Murgia presenta in libreria il suo ultimo lavoro dal titolo “Stai Zitta“, ed affronta queste tematiche, le stesse che subì EmmaCarelli. Sono trascorsi 95 anni ed è cambiato ancora troppo poco.
Quindi cosa aggiungere, se non la consapevolezza contemporanea che una meravigliosa creatura di solo 51 anni, oggi diremo all’apice delle sue potenzialità creative, venne stroncata da uno stress post traumatico, causato da un dolore talmente forte dal quale non riuscirà più a riprendersi. Un dolore talmente intenso da alterare la percezione del “qui e ora”. Dolore vivo, di pensieri ricorrenti che le fece perdere il controllo dell’auto, come forse aveva perso il controllo emotivo della sua vita. Nel 1928, si registrò il più alto numero di suicidi femminili nella storia del nostro paese. Non si utilizzavano ancora i psicofarmaci come mezzo per controllare il pensiero evolutivo della donna come lo diverrà negli anni ’50, per mantenere funzionale un sistema patriarcale.
Emma Carelli moriva lo stesso anno in cui nasceva America Franco Lao, 1928, e mi piace pensar a quest’ultima, come la degna erede dello spirito indomabile di Emma. Quanto hanno in comune queste due donne, pur avendo vissuto in epoche diverse, entrambe si sono battute per i loro sogni.
Meri Franco Lao, eternamente in viaggio, sperimenta tutto, scrittrice, musicista, ricercatrice espressiva della gestualità nella danza; tutto della sua vita la porta verso il tango, era predestinata a questa Mirada.
L’incontro con Astor Piazzolla è un connubio di scambio culturale ed energetico, ricco perché emotivamente sincero, e nasce dal riconoscersi viaggiatori consapevoli. Leggendo gli articoli di Meri Franco Lao su Piazzolla (www.sirenalatina.com) schietti diretti dalle prime parole ne intuisci la forza del suo pensiero che non concede sconti a nessuno.
Forse nasce da qui, il dispiacere che ho provato nel leggere le diverse biografie a lei dedicate. Anche quella nella enciclopedia della donna, cattura l’attenzione del lettore, nominando un suo amore giovanile, che come tale forse, avrebbe dovuto rimanere custodito.
Peccato, che nessuna biografia maschile del soggetto fa riferimento a Meri Lao, come passione giovanile di lui e come forse questo dono prezioso che si scambiarono, abbia in qualche modo influenzato la sua vita di uomo e di artista, cosa che invece viene sottointeso in quella di lei. Che ironia, che tristezza legare all’immaginario collettivo il riconoscimento di un talento proprio di Meri Franco Lao alla visibilità dell’occhio di un uomo, ancora agli albori, prima che completasse il suo percorso di studi e di vita. Lei, proprio lei, che nel testo della canzone, “Un uomo senza donna”, conclude con questa domanda “che cazz’è che cazz’è?” ne fa il suo testamento letterario, legandolo alla frase anonima scritta nel 1969 sul muro dell’università del Wisconsin – Madison “Una donna senza un uomo è come un pesce senza bicicletta”.
Cosa dire, solo una riflessione personale, siamo condizionati a livello inconscio e programmati socialmente e culturalmente per reagire di fronte a connessioni logiche ed emozionali, che sfuggono al nostro volere consapevole.
Meri Lao ha avuto i suoi “Stai zitta”, e più di uno, perché ha vissuto più a lungo di Emma Carelli, in una dimensione multimediale che le ha permesso di risuonare in tutto il mondo. Anche lei come Emma Carelli non era donna da subire in silenzio. E lo “Stai zitta”, che più le è pesato, è quello legato alla mancanza di riconoscimento dei diritti d’autore da parte della Siae per la sua canzone “Un uomo senza donna” utilizzato nel Film di Fellini, la Città delle donne. L’ emancipazione femminile nasce dal riconoscimento economico di parità al maschile. Mai come oggi al tempo del Covid, questo è di vitale importanza, non solo per la donna, ma per un senso di giustizia e dignità umana.
L’attenzione su questi fatti è un atto dovuto, perché il pensiero acquista valore nel momento in cui l’azione è coerente.
Ho allegato il link della sua testimonianza ed altri per approfondire gli argomenti trattati.